Recentemente, a causa dell’ennesimo suicidio volontario del mio notebook (di cui piango ancora la perdita, sebbene non lo meriti), mi sono decisa a guardare sistematicamente gli episodi dell’anime di InuYasha grazie al mio fedele iPad. È stato amore, e quest’anime è riuscito a debellare la mia temporanea fissazione per la serie di Amelia Peabody di Elizabeth Peters, contribuendo però a crearne un’altra. Stamattina, nel momento in cui ho cominciato a scrivere, ho visto il finale della terza stagione, anche se a differenza delle serie tv americane InuYasha non è affetto dalla sindrome cliffhanger; guardando gli episodi con continuità non ci si accorge del cambio da una stagione all’altra.
Dopo la visione delle prime tre stagioni di tre cose ero del tutto certa, come disse Bella pensando a Edward in Twilight: Sesshomaru è un portatore sano di figaggine quasi insostenibile (e quando è con Rin dalla tenerezza si sciolgono anche i ghiacci polari); una risata vi seppellirà quando Koga chiama InuYasha “botolo” (ringhioso);è impossibile sopravvivere fino alla settima stagionesolo per vedere il tanto atteso bacio tra Kagome e InuYasha e anche quello tra Sango e il monaco pervertito (con una certa predilezione per i fondoschiena) Miroku. Rumiko Takahashi, la creatrice del manga a cui è ispirato, ha manifestato chiaramente una predilezione per il sadismo a distanza, acuendo al massimo grado la frustrazione dei lettori per launresolved sexual tension dei personaggi. In realtà sono consapevole di mentire. Una delle matrici del successo dell’anime tra il pubblico femminile, forse, è proprio dovuto a questo: la “voglia”, il “desiderio” non appagato spinge la spettatrice a saziarsi con sguardo bramoso anche dei più brevi momenti d’intimità tra i propri personaggi preferiti, sapendo di non poterne avere di più. Ogni rossore, ogni carezza e abbraccio sono centellinati.

La domanda rimasta in sospeso è quindi: che cosa le autrici di paranormal romance e urban fantasy americano dovrebbero imparare (la maggior parte, almeno) da InuYasha?
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2. Il profilo dei personaggi deve essere tridimensionale, e non abbozzato solo in superficie come se i protagonisti fossero dei manichini da esporre soltanto frontalmente. Nei paranormal il focus è (giustamente) sulla coppia principale. Questa scelta, però, non deve penalizzare la caratterizzazione dei personaggi secondari, che spesso non sono altro che piccole macchiette aggiunte alla storia come ornamento e riempitivo. Nell’anime compare un demone particolarmente interessante: il fratello maggiore di InuYasha, Sesshomaru. La sua è una storyline minore – un rivoletto di poca portata – che però in pochi minuti di presenza sa calamitare l’attenzione. Pochi tratti decisi scolpiscono la sua figura, e il “non detto” risulta molto più intrigante di ogni descrizione che si potrebbe fornire in merito. Nel suo caso, non essendo dotato di particolare eloquenza o empatia per essere alcuno, sono i gesti posti in rilievo.
3. La gestione della parte pseudo thriller/action. Le autrici di paranormal non sono capaci di scrivere scene d’azione interessanti, credibili, realistiche, che catturino l’attenzione. Evidentemente hanno letto poco di altri generi, o sono incapaci in quello specifico frangente. Infatti, l’intreccio mystery è spesso carente e banale, si percepisce da pagina 20 quale sarà la risoluzione o, peggio, proprio non interessa a chi sta leggendo. È successo anche con Obsidian, l’ultima mia lettura del genere. Ho saltato interi paragrafi. Poco interessanti, le scene di approfondimento o di conflitto sono scritte con la stessa mediocrità del resto, ma almeno prima le schermaglie tra i personaggi risultavano gradevoli. Le parti dedicate ai “cattivi”, o al world building, sono noiose, perché poco ragionate. Se una scrittrice è manchevole nella scrittura delle parti più “movimentate” sarebbe consigliabile che si astenesse dallo scriverle. Oppure che si leggesse qualche thriller/action e prendesse, nel frattempo, qualche appunto.
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5. Non prendersi troppo sul serio. Questa è la parte più difficile. Le autrici sono incapaci di oltrepassare i cliché del genere, di creare personaggi nuovi, imprevedibili, che oltrepassino quella linea invisibile di modelli prestabiliti e riproposti all’infinito. La medesima cosa si può dire dello stile. Monotono, piatto, brutto. Appena qualche frase elementare giustapposta e la consueta descrizione pornografica di ripetitivi atti sessuali. Di solito non c’è divertimento fine a se stesso che alleggerisca la narrazione. Non c’è ironia sottile e intelligente. Non ci sono siparietti scherzosi. Bisognerebbe porre rimedio a questa mancanza.
6. La protagonista. Bella Swan o Anita Blake. Delle due l’una. O è una ragazza normale, un po’ imbranata, oppure è una tostissima. C’è un’assenza di sfumature che spiazza. In InuYasha Kagome non è particolarmente dotata fisicamente, non conosce le arti marziali, è indifesa in più di un episodio, ma reagisce. Ha carattere, non si fa sottomettere da chicchessia e, alle volte, si dimostra risolutiva per l’adempimento di una missione. E, cosa più importante, è coerente, sebbene sia anche lei vittima di un’incostanza sospetta che possiamo attribuire all’adolescenza e alla naturale inclinazione femminile.

Comunque sia, cari lettori, se ancora non l’avete fatto, cominciate la visione di InuYasha, trovate gli episodi integrali su YouTube. Fatelo, perché non ve ne pentirete. Aspetto con trepidazione il vostro feedback.