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Recensione "La città di sabbia" di Laini Taylor

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Sentimento, avventura e fantasia, uniti in una scrittura evocativa e ricca di fascino. Una storia d'amore contrastato, una guerra epica fra popoli nemici e personaggi indimenticabili che provengono da antiche mitologie

Autore: Laini Taylor
Titolo: La città di sabbia
Titolo originale:Days of Blood and Starlight
Traduzione di: D. Rizzati 
Casa Editrice: Fazi
Collana: Lain
Pagine: 472
Prezzo:€ 16,60
Data di pubblicazione: 25 aprile 2013
Trama: Oltre i confini della Terra, in un luogo effimero e invisibile, due giovani creature, un guerriero serafino e una chimera si sono incontrati e tra di loro è nato un amore impossibile. Le loro due razze infatti, nemiche da secoli, sono in guerra, e tentano di distruggersi a vicenda in una spirale di vendette e sacrifici. I due ragazzi però hanno un sogno, portare la pace e la serenità tra i loro due popoli e vivere il loro amore senza l’ombra del pericolo e della segretezza. Ma il destino non sarà misericordioso per questi due amanti sfortunati, che verranno scoperti e condannati a morte. Akiva riuscirà a fuggire e mettersi in salvo, mentre Karou verrà giustiziata, ma grazie al suo padre adottivo, un resuscitatore, la sua anima verrà trasmigrata in un corpo umano. Ma Karou non potrà per sempre nascondersi dalla sua vera identità e quando scoprirà tutto sul suo passato sarà anche il momento di ritrovare Akiva e continuare ciò che avevano iniziato insieme. Riusciranno a costruire un dialogo di pace tra i due nemici e scongiurare un conflitto che potrebbe distruggere le loro vite e il loro mondo?

RECENSIONE

Laini Taylor è brava, non c’è che dire. La chimera di Pragaè stato un romanzo capace di colpire il lettore per la sua freschezza, per la sua texture colta pur senza pretenziosità, per la capacità di avvincere e la scorrevolezza. Le domande si alimentavano insieme allo svelarsi dei personaggi e l’ironia, la capacità di far ridere con il gergo e la leggerezza delle protagoniste ragazzine stemperavano il tono drammatico della parte puramente fantasy. Ci riesce anche questo secondo episodio della trilogia Daughter of Smoke and Bone? Sostanzialmente sì. Il compito non è facile, perché la Taylor ha dovuto costruire un mondo complesso, che nel primo libro era delineato, ma qui doveva trovare corpo e sostanza. Il rischio di eccedere in questo senso la Taylor lo corre, certo, e il numero di pagine sta a dimostrarlo. Inoltre le dinamiche fra Karou e la sua amica Zuzana sono quelle che danno frizzantezza e un sapore vicino e quotidiano alla storia: sebbene in questo secondo romanzo siano meno presenti, ugualmente consentono di tirare un sospiro di sollievo, di non perdersi in questo fantastico mondo altro, quello dei serafini e delle chimere, dove dramma, crudeltà, guerra e segreti del passato incombono onnipresenti.

Del resto gli stessi Akiva e Karou sono simboli di questa diversità che si avvicina: il primo un’imponente e tragica figura di serafino, innamorato di una ragazza umana, che altro non è che il suo antico amore, la bellissima Madrigal, la chimera che ha tradito il suo popolo, la cui anima è stata conservata e trasferita in un tenero corpo umano. Karou è Madrigal, Akiva è il potente angelo perdutamente innamorato, così come entrambi sono Giulietta e Romeo. Non c’è dubbio che la sfida sia, attraverso il miracolo dell’amore, quella dell’impossibile convivenza dei diversi, dell’abbattimento di barriere millenarie, dove le categorie di “angeli” e “demoni” vengono sradicate dalle loro origini e piegate a narrare tutta un’altra storia. Ci sono i “cattivi assoluti” e li troviamo in entrambe le fazioni, quelli che vogliono solo la distruzione e il dolore, secondo le leggi inveterate del fantasy; ci sono i buoni che sono sviati perché desolati e soli nella strada che hanno deciso di percorrere; c’è la coppia che… se parlasse, se decidesse di comunicare davvero, tutto sarebbe diverso, come succede sempre: questo potrebbe risultare un po’ scontato. C’è la tentazione della disperazione e c’è la speranza, che è rappresentata da Karou, il cui nome significa proprio quello. Sono cliché, non c’è che dire, ma la Taylor innegabilmente accompagna bene il lettore attraverso tutto questo e la sua prosa scorre talmente limpida che è un piacere.

Il fatto che questo libro dovesse introdurre a un ultimo atto risolutivo un po’ lo penalizza, probabilmente, ma l’approfondimento dei personaggi già incontrati e l’introduzione di nuovi funziona abbastanza bene come diversivo, mentre il percorso dei protagonisti, quasi sempre separati dal “destino”, cresce in spessore. La parte romance è così elegante e non ostentata che non pesa per nulla e poi, insomma, questo romanzo parla di angeli sì, ma la prima loro vera descrizione la troviamo forse dopo pagina duecento; la Taylor scrive come Karou disegna, con naturalezza: le figure delle immaginose chimere e dei possenti serafini sono suggerite alla fantasia del lettore con un’immediatezza tanto meravigliosa quanto apparentemente semplice da ottenere. Allo stesso modo che per La chimera di Praga, il gusto delle location d’effetto non viene meno e la kasbah sotto un cielo intessuto di stelle conferisce eleganza ed esotismo alla storia, la cui costruzione è portata avanti con indubbio equilibrio.

I tre angeli Hazael, Liraz e Hakiva, nella loro individualità e nel legame reciproco, vengono svelati nei loro chiaroscuri ed è più facile amarli quanto più si allontanano dalla schematicità. Di seguito un piccolo assaggio per concludere. Ma prima una speranza: che l’ultimo romanzo della serie arrivi presto e che riesca a mantenere e migliorare la reciproca compensazione fra la leggerezza dei sentimenti dell’umana Karou e il complicato arazzo fantasy in cui spiccano Madrigal e Akiva, che è la chiave di questa trilogia.
I miei fratelli, rifletté Liraz, entrando ad Astrea in mezzo a loro. Com’erano diversi l’uno dall’altro: Hazael con i suoi capelli biondi e la risata cristallina, Akiva cupo e silenzioso. Sole e ombra. E io che cosa sono? Non lo sapeva. Pietra? Acciaio? Mani nere e muscoli troppo contratti per ridere?
Sono l’anello di una catena, pensò. Il loro distintivo era giusto: non nella schiavitù, ma nella forza. Camminò a grandi falcate in mezzo ai suoi fratelli, tutti e tre fianco a fianco per il vasto viale cittadino. Questa è la mia catena. Le loro armature erano opache alla luce della luna, a quella dei lampioni, al bagliore infuocato delle loro piume, e la gente si ritraeva al loro passaggio con sguardi diffidenti. Oh, Astrea, pensò Liraz, ti abbiamo tenuta troppo al sicuro se adesso è di noi che hai paura. La ragazza sapeva che loro non erano né amati né rispettati dal popolo e che ben presto sarebbero stati noti per la loro infamia ed emarginati, ma non le importava. Purché avesse i suoi fratelli.

L’AUTRICE: Laini Taylor è nata a Chico, California, e ha una laurea in inglese alla UC Berkeley; è autrice di altri tre romanzi: Blackbringer e Silksinger, della serie Dreamdark, e del romanzo arrivato finalista al National Book. La città di sabbiaè il secondo capitolo della trilogia Daughter of Smoke and Bone iniziata con La chimera di Praga, tra i migliori dieci libri del 2011 per Amazon, segnalato da New York Times, Publishers Weekly, Kirkus Reviews e School Library Journal come uno dei libri migliori del 2011. I diritti di traduzione sono stati acquisiti in 25 Paesi e quelli cinematografici dalla Universal Pictures, dopo un’infuocata asta tra 5 major.

Recensione "Da qui all'eternità" di James Jones

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Cari lettori,
alcuni mesi fa è stato nuovamente pubblicato Da qui all’eternità, un classico della letteratura contemporanea americana che nel 1952 vinse il National Book AwardUn libro che alla sua uscita sconvolse l’opinione pubblica: fu pesantemente censurato già in fase di editing e, arrivato in Italia nel 1954, venne messo nell’elenco dei libri all’indice. Grazie alla casa editrice Beat questo indimenticabile romanzo è arrivato a noi finalmente non censurato.

Un’opera potente, realistica, coinvolgente, la cui storia racconta un’umanità lontana eppure così vicina. Un libro da avere nella propria libreria: magari non lo leggerete oggi né domani, ma arriverà un momento in cui sentirete il richiamo di quella copertina, di quelle pagine, scoprendo un mondo che farete fatica ad abbandonare.

Autore: James Jones
Titolo: Da qui all’eternità
Titolo originale:From here to eternity
Traduttore: Chiara Ujka
Casa editrice: Beat
Genere: Narrativa
Pagine: 1040
Prezzo: € 16,50 
Data di pubblicazione: novembre 2012
Trama: A sessant’anni dalla prima edizione, Da qui all’eternitàè al tempo stesso un classico della letteratura americana e un romanzo ancora magnifico e vitalissimo. E finalmente quello che è stato tra i più grandi successi letterari del Novecento può essere letto in versione integrale, senza le censure che lo avevano martoriato all’epoca del Maccartismo privandolo delle scene e dei dialoghi più realistici della vita militare, del linguaggio osceno e dei dettagliati quadri della repressione sessuale dei soldati, per i quali c’erano solo i bordelli oppure le esperienze omosessuali («Almeno mi faccio un paio di bicchieri e tiro fuori l’uccello», spiega il soldato Maggio in una scena censurata). Non solo: la versione integrale ci dice che pari attenzione era stata posta a rimuovere i passaggi pruriginosi anche dal punto di vista politico, come i brani dedicati al pacifismo della classe operaia del Midwest, quella che forniva la massa delle truppe di fanteria. È il 1941 nella base di Schofield sull’isola hawaiana di Oahu, poco prima dell’attacco a Pearl Harbor. I protagonisti sono due soldati dalla testa dura: Robert Prewitt, un trombettiere di talento ed ex pugile deciso a non salire più sul ring, e Milton Warden, un sergente di ferro, cinico e beffardo ma dotato di un suo personale senso di giustizia. Al centro delle vicende dei due protagonisti e dei loro comprimari – il piccolo e indistruttibile Maggio, italoamericano di Brooklyn; il caporale Bloom e il suo dramma di essere ebreo; i due vitali ma malinconici omosessuali Hal e Tommy; l’intellettuale e filosofo sempre in carcere Jack Malloy – vi sono le relazioni di Warden e Prewitt, tra loro e con le loro donne: Karen, la moglie del capitano Holmes, fragile e alla disperata ricerca di essere amata; e Lorene, la prostituta determinata a diventare un giorno, altrove, una donna e una moglie rispettabile.

RECENSIONE
“Questa libro è opera di invenzione romanzesca. I personaggi sono solo immaginari e qualsiasi somiglianza con persone reali è del tutto casuale. Tuttavia, alcune scene della Palizzata si verificarono realmente. Non ebbero luogo alla Palizzata della caserma di Schofield, ma in una località degli Stati Uniti dove l’autore prestò servizio, e sono scene vere di cui l’autore ebbe conoscenza diretta ed esperienza personale” 
 Robinson, Illinois, 27 febbraio 1950.



“La sfinge deve risolvere il suo enigma. Se il complesso della storia è in un uomo, tutto dev’essere spiegato a partire dall’esperienza individuale” 
 R.W. Emerson, Saggi. Prima serie, Storia


Perché iniziare proprio da queste citazioni inserite all’inizio del libro? Perché quando lo terminerete, il vostro istinto vi porterà a ricominciare da capo anche solo per sfogliarlo senza abbandonare i luoghi, i personaggi che ormai fanno parte di voi. Leggerete quelle citazioni e vi accorgerete che in quelle parole risiedono le due anime di questo libro: l’esperienza e i demoni dell’autore che filtrano, debordano e impregnano ogni singola paginaLa ricerca di risposte, il continuo ed eterno desiderio dell’umanità di capire la vita nel quale è invischiata e i suoi meccanismi a volte perversi.

Prima cover originale
In questo ho trovato la forza del romanzo. La storia di uno scrittore segnato e inseguito dai ricordi e dai fantasmi del passato, che ha sentito la pulsione quasi primordiale di raccontare le sue esperienze e, attraverso di esse raccontare un genere umano che cambia, si evolve ma non perde mai la propria istintualità e che involve continuamente in se stessa. Ieri come oggi gli impulsi primari che ci contraddistinguono sono sempre i medesimi e medesimi sono i meccanismi: amore, odio, onore, meschinità, morte, vigliaccheria, insicurezze…

Attraverso uno stile profondamente realistico, a volte criptico e talmente crudo in alcuni passaggi da annichilire il lettore, Jones riesce con inusitata precisione a tratteggiare atmosfere, luoghi, personaggi e l’animo umano nella sua totalità. Sporcando il linguaggio, calcando la mano ed esacerbando i flussi di coscienza e le riflessioni dei protagonisti, la storia esce dalle pagine per diventare un mondo concreto attraverso il quale il lettore entra in empatia con lo scrittore e le vite che voleva raccontare. L’autore racconta se stesso e le vite di chi, come lui, ha vissuto esperienze simili donando l’immortalità ad un periodo storico e delle persone che altrimenti non avrebbero avuto voce.

James Jones ha conosciuto la guerra da vicino, ha combattuto durante la seconda guerra mondiale ed è stato giornalista durante il conflitto nel Vietnam. Ed è proprio tra il 1941 e il 1942 nella base di Schofield nelle Hawaii – dove era di stanza lo scrittore – che è ambientato Da qui all’eternitàDei luoghi che l’autore conosce molto bene e una vita che gli è appartenuta per lungo tempo rendendo il romanzo ancora più potente, verosimile e incisivo.

I personaggi della storia sono frutto dell’immaginazione dell’autore, ma lui stesso ammette nelle lettere all’editore presenti nella postfazione (presenti alla fine dell’opera) di essersi ispirato a persone incontrate durante la sua ferma nell’esercito.Da qui all’eternità racconta la vita all’interno della base militare del soldato semplice Prewitt e del sergente Warden che diventano il file rouge, i centri attorno al quale girano le vite di molti altri personaggi che animano le pagine di quest’opera monumentale. Storie che si intrecciano, si allontanano, si sfiorano e si ricongiungono creando un intero universo. Attraverso le loro storie, il lettore entra di potenza in un mondo lontano, diverso, anacronistico per i nostri tempi ma che ci permette per un attimo, il tempo di una lettura, di vivere una vita e scorgere un mondo altrimenti nascosto. Un mondo apparentemente datato, eppure le vite di queste persone non potrebbero essere più vicine nemmeno se fossero tangibili. Emozioni, sensazioni, dubbi, paure, meschinità, incubi e desideri che ognuno di noi prova. Le domande e le insicurezze che quei personaggi provano sono le nostre medesime, la continua ricerca dell’amore, di capire la strada giusta da intraprendere per non perdere la nostra identità e integrità e persino la nostra umanità nei momenti più difficili. L’insofferenza di fronte a determinati status quo e il desiderio di afferrare a piene mani il senso di ciò che ci capita, di dare un nome ai sentimenti che proviamo e la difficoltà di capire realmente le persone sotto lo strato di maschere e strutture che ognuna indossa. C’è il desiderio di vivere e di comprendere il proprio posto nel mondo invece che sopravvivere alla vita e subire gli eventi.

Da qui a l’eternitàè un libro potente e straordinario che non lesina e non edulcora la crudezza della vita e delle persone che allo stesso tempo sono vittime e carnefici. Vittime di un sistema e carnefici di se stessi quando si adeguano a quel sistema perché “così va la vita” e “così vanno le cose”.

Un lettura intensa che porta il lettore a vivere tre sentimenti profondamente diversi fra loro: il desiderio di immergersi completamente nella storia, la necessità di staccarsene perché emotivamente troppo coinvolgente e la paura di terminarlo e racchiuderlo nel flusso di ricordi.

L’AUTORE: James Jones (1921-1977) fu arruolato nell’esercito americano, 25a Divisione Fanteria, nel 1939, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Di stanza alle Hawaii, combatté successivamente nella battaglia di Guadalcanal. Ha raccontato la quotidianità, le atrocità e le conseguenze della guerra in opere di fama mondiale, comeDa qui all’eternità e La sottile linea rossa.



Recensione "Implosion" di M.J. Heron

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Cari lettori, 
prosegue la nostra carrellata di recensioni dei vincitori del Premio Selezione Bancarella 2013. Oggi parliamo infatti di Implosion, opera prima dell’italiana M. J. Heron.
Un caso editoriale che, come accade sempre più spesso negli ultimi anni, è partito dal digitale. Il romanzo era infatti uscito solo in versione e-book, ma il picco di vendite e le proteste da parte dei lettori, hanno convinto la De Agostini a portarlo in tutte le librerie. Una mossa certamente vincente, che ha premiato la casa editrice con l’entrata del romanzo nella rosa del Premio Selezione Bancarella guadagnandosi anche il primato per il genere Paranormal Romance. 

Autore: M.J.Heron 
Titolo: Implosion 
Casa Editrice: De Agostini Libri 
Pagine: 382  
Prezzo: € 9,90 
Data di uscita: 26 Ottobre 2012 in versione ebook, Gennaio 2013 in versione cartacea
Trama: Non è affatto un giorno come un altro. Il destino ha premuto il tasto on. Le loro vite stanno per cambiare in modo definitivo. Quando Katherine Evans incontra Armand non sa che dietro quelle sembianze da bello e dannato si cela uno dei più potenti Generali dell'Antica Stirpe. Non può immaginare che sarà proprio lui la sua salvezza... o la sua rovina, né può conoscere il suo vero piano: crudele, spietato, oscuro come le tenebre. Un paranormal venato di fantasy in cui gli eventi si susseguono con i ritmi del thriller. Una verità agghiacciante sta per essere svelata. Nessuno è più al sicuro, i protagonisti stanno per essere soffocati dalle loro stesse esistenze. Ognuno di loro nasconde un segreto, nessuno può permettersi di fallire. Una sola certezza: quando supera se stesso, l'amore può uccidere. Se nulla è come sembra, come fai a prendere la strada giusta? Tu chi sceglieresti tra chi ti ha dato la vita e chi potrebbe togliertela? La risposta potrebbe non essere così ovvia. 

 RECENSIONE 
"Sul bordo del precipizio, Katherine avanzò di qualche centimetro, rapita dal fascino irresistibile dell'oscurità. Quella sera di domenica la luna era piuttosto schiva. Le nuvole dense ottenebravano la grande sfera luminosa, permettendo il passaggio a pochi raggi velati. Le cime degli abeti si ergevano austere verso il cielo, fin quasi a congiungersi con nuvole nere che il vento portava da ovest. La neve sotto i suoi piedi scricchiolava pigra. Katherine era arrivata al limite, lo sentiva con chiarezza. Ancora un centimetro e il vuoto l'avrebbe inghiottita."
Implosionè il primo libro di una trilogia che abbina il Paranormal Romance all’Urban Fantasy senza rinunciare ad un tocco di Thriller.

 Setting d’eccezione è la bella Firenze, con le sue facoltà universitarie, i bar, le gallerie e il romantico Lungarno. Una scelta che, finalmente, sembra aver preso piede in Italia, eliminando gli scimmiottamenti di ambientazioni americaneggianti o simili. È nella città “del Magnifico” quindi, che conosciamo Katherine, studentessa al secondo anno della Facoltà di lettere e Filosofia. Americana di origine, figlia di un importante e rinomato chirurgo, è giunta in Italia con i propri genitori dopo una tragedia familiare che l’ha segnata per sempre. Una mattina come tante, nell’aula del corso di Storia dell’Arte, inizia la sua nuova vita.
Armand era il perfetto tipo mediterraneo: capelli scuri, occhi color ebano, tratti marcati e perfettamente armoniosi. Ventiquattro anni e 185 centimetri di pura, sfolgorante bellezza.
Armand CastelliArmand Castelli, il nuovo assistente del corso di Storia dell’Arte, la turba come mai le era successo prima. Non è solo la sua bellezza ad attirarla, ma i suoi modi, la sua voce e quel qualcosa di profondo e nascosto. 
Lui la guardò per un istante, poi distolse lo sguardo per un attimo e tornò a fissarla dritta negli occhi. Si sentì come attraversare da un pezzo di roccia appuntito. Era freddo, imperturbabile, distaccato.
Ma forse il destino che li ha fatti incontrare, non sarà altrettanto benevolo nel farli avvicinare e stare insieme. Non è solo il legame docente/studente a scoraggiare eventuali relazioni, perché in Armand c’è molto di più di un fisico scolpito e un incredibile talento artistico. Lui non è umano. È un Kurann. E fa parte dell’Antica Stirpe.
 «Io appartengo all’Antica Stirpe dei Kurann, il nostro organismo funziona in modo diverso da quello umano, per noi il sangue è un nutrimento essenziale.»
Interessante la scelta di questa originale mitologia “vampirica”. In un campo come il Paranormal Romance e l’Urban Fantasy, nei quali si sono affollati autori d’oltre oceano e italiani, declinando il tema in ogni possibile “salsa”, trovare nuove e plausibili spiegazioni non è semplice.

 I Kurann, non appartengono al classico immaginario vampirico. Il loro DNA mutato geneticamente, gli ha garantito un invecchiamento lento, portando così la loro vita ad un’estensione millenaria. Ilsangue è importante per la loro sopravvivenza e deve essere scambiato tra membri della stessa specie, ma si nutrono anche di normale cibo. Per quanto originale ed interessante, la mitologia dell’Antica Stirpe, rimane un po' sullo sfondo impedendo al lettore di viverla sulla propria pelle e magari parteggiare per la causa per la quale stanno combattendo.

La storia narrata è sinceramente interessante, e sebbene a tratti ricordi alcune caratteristiche rintracciabili nella serie della Confraternita del Pugnale Nero della Ward o della Stirpe di Mezzanotte della Adrian, riesce a trovare un suo binario originale sul quale viaggiare.

Abbiamo detto che questo libro aggiunge agli elementi caratteristici del Paranormal e dell'Urban anche una buona dose di thriller. Ad essere sinceri, ci sono momenti e scelte narrative che potrebbero ricondurci a questo genere, ma la tensione e l’aspettativa si mantengono sempre ad un livello troppo basso per avvolgere il lettore nella loro spirale. Gli assi che l’autrice conserva nella sua manica, vengono scoperti troppo presto e senza un adeguato climax, rendendo i capitoli successivi più piatti. Scoperto il mistero, rimane solo la domanda “ce la faranno i nostri protagonisti a stare insieme?” a spingerci a continuare la lettura.

Sempre riconducibile alla Ward, è la scelta di alternare più punti di vista. Ma, se nell’americana, i cambi di protagonista e tono, servono a dare ritmo e aumentare l’aspettativa, qui si crea un po' di confusione. Non c’è una cadenza regolare e spesso i POV sono davvero troppi, risultando, per così dire, scoordinati. Inizialmente seguiamo principalmente Katherine, alternando brevi spazzi di Armand. Man mano che si prosegue con la lettura, però, troviamo fugaci paragrafi di vari comprimari: Robert, Donata, la dottoressa o il ragazzo emaciato. Il lettore si sente spiazzato e spesso finisce col dimenticare di aver letto di loro.

Kylaah la strega kurannI personaggi principali sono ben caratterizzati, ma stranamente, non riescono a colpire il cuore del lettore come invece riescono a fare alcuni comprimari. Kylaah e Shamnos ne sono un esempio lampante. Entrambi, anche se in modi diversi, entrano lentamente ma inesorabilmente nel nostro immaginario, rendendoci costantemente bramosi di maggiori informazioni su di loro. Chi sono? Da dove vengono, qual è la loro storia? Mi spiace invece di non aver provato una stessa aspettativa per Katherine e Armand.

Nota negativa, a mio avviso, è l’entrata in scena solo negli ultimi capitoli, di un personaggio che, si rivelerà fondamentale per gli eventi conclusivi: Lisa Swanee. Di lei si poteva scrivere di più e sicuramente approfondire maggiormente, così da evitare quel fastidioso effetto “coniglio dal cilindro”, che risolve le cose come per magia. Anche gli antagonisti, i cattivi “veri”, potevano essere descritti con maggiore spessore. Sappiamo un po' la loro storia, capiamo le loro intenzioni, li sentiamo nominare spesso, ma non li vediamo mai. Rimangono impalpabili come ombre e non incutono né timore né altri sentimenti se non indifferenza.

Le 382 pagine di Implosion, scorrono, in modo alterno, a volte fluide e veloci, altre lente e pesanti. La scrittura dell’autrice risulta acerba e a tratti un po' incerta. Belle descrizioni di luoghi e atmosfere, lasciano il passo a dialoghi che risultano forzati e poco naturali. Informazioni che potrebbero essere sciorinate lentamente, soprattutto nella parte iniziale, ci travolgono dandoci la spiacevole sensazione di infodump.

Credo che, questo libro abbia buoni spunti e potenzialità per crescere, magari arrivando a diventare una risposta tutta italiana alle celebri “confraternite” e “stirpi”, ma che abbia ancora bisogno di un po' di lavoro.

Erroneamente, si pensa che, visto che in questi anni il Paranormal Romance è diventato di moda, tutto possa essere bevuto da un pubblico avido, tanto per cavalcare l’onda di un periodo fertile. In realtà, proprio per la mole di materiale immesso nelle librerie, le lettrici e i lettori di questo genere, hanno visto molto, in molte salse e declinazioni, affinando sempre di più i propri gusti e diventando ogni giorno più esigenti.

Certamente, un’opera prima non può essere considerata alla stregua del centesimo libro di un autore navigato, quindi non ci resta che restare con gli occhi puntati su questa giovane autrice di talento e vedere se i fiori daranno buoni frutti nel secondo e terzo capitolo della serie.

L’AUTRICE 
M.J. Heron nasce ventotto anni fa sotto il segno dello Scorpione, in una terra in cui le nebbie del mistero avvolgono il respiro e le antiche leggende ridisegnano i contorni del paesaggio. Amante delle emozioni forti e di tutto ciò che può essere nuovo e stimolante, trova irrinunciabile la compagnia di un buon romanzo (classico, thriller o d'amore a seconda del suo stato d'animo). Nella scelta di una carriera universitaria che sembrava tracciata, alla strada del giornalismo preferisce invece quella dell'interpretariato e della traduzione, anche se sogna di continuare a scrivere fino alla fine dei suoi giorni. Vorrebbe viaggiare nel passato, conoscere il futuro e disporre di giornate di almeno 48 ore. Intanto assapora il presente che sa riservare belle sorprese e si trattiene con i personaggi che entrano nella sua mente senza bussare…

Sito ufficiale dell'autrice e della serie QUI
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Home Video "Les Misérables" recensione

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Titolo originale: Les Misérables
Paese di produzione: Regno Unito
Anno: 2012
Durata: 158 minuti
Genere: drammatico, musical, romantico
Regia: Tom Hooper
Soggetto: Victor Hugo (romanzo), Claude-Michel Schönberg, Alain Boublil, Jean-Marc Natel, Herbert Kretzmer (musical)
Sceneggiatura: William Nicholson
Cast: Hugh Jackman, Anne Hathaway, Russell Crowe, Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter, Eddie Redmayne
Uscita Blu-ray Universal: 22 maggio 2013
Trama: Adattamento cinematografico dello spettacolo teatrale più amato dalle platee di tutto il mondo, visto da oltre 60 milioni di persone in 42 paesi e in 21 lingue diverse. Ambientato nella Francia del XIX secolo, il regista premio Oscar de Il Discorso del Re, Tom Hooper, e la produzione Working Title/Cameron Mackintosh ci offrono l’affascinante storia di Jean Valjean (Jackman), ex-detenuto ricercato da decenni dallo spietato poliziotto Javert (Crowe). Quando Valjean acconsentirà a prendersi cura di Cosette, la giovane figlia dell’operaia Fantine (Hathaway), le loro vite cambieranno per sempre.

RECENSIONE
A poco meno di quattro mesi dall'uscita cinematografica italiana, arriva la versione home video de Les Misérables, adattamento per il grande schermo del celebre musical ispirato al romanzo di Victor Hugo. Il capolavoro, diretto magistralmente da Tom Hooper, è disponibile a partire dal 22 maggio nelle versioni DVD e Blu-ray del catalogo Universal.

Come sicuramente i lettori più affezionati ricorderanno, noi di Diario di Pensieri Persi abbiamo già ampiamente discusso di questa pellicola (potete trovare la recensione completa cliccando QUI) e vogliamo quindi concentrarci ora, sulla sua conversione in formato home video.

Grazie alla collaborazione con la Universal abbiamo potuto gustarci il Blu-ray de Les Misérables e siamo subito rimasti colpiti dall'incredibile qualità video del prodotto. Il film di Hooper è spettacolare, epico, perfetto per le dimensioni maestose del cinema. Si potrebbe pensare che guardandolo sul televisore del salotto non si possa godere appieno della sua spettacolarità, ma sarebbe un errore. Grazie alla nitidezza del blu-ray, infatti, la visione casalinga non risente delle dimensioni ridotte dello schermo a disposizione, garantendo allo spettatore un'esperienza di altissimo profilo.

La grande resa della pellicola è garantita anche dalla qualità audio (Inglese DTS-HD MASTER AUDIO 7.1; Francese, Italiano, Tedesco DTS DIGITAL SURROUND 5.1) che permette una completa immersione nella Parigi del XIX secolo.

Oltre al film, il Blu-ray contiene un'ampia sezione di contenuti speciali con un documentario di circa sessanta minuti, dedicato alla lavorazione del film e con particolare riguardo alla rivoluzionaria scelta del regista di far cantare gli attori direttamente sul set (senza doppiarli in un secondo momento).

Un prodotto di altissima qualità, degno di un capolavoro cinematografico quale Les Misérables.

INFORMAZIONI TECNICHE DVD
CONTENUTI AUDIO: Inglese, Italiano, Spagnolo DOLBY DIGITAL 5.1
SOTTOTITOLI: Inglese n/u, Italiano, Spagnolo, Arabo, Portoghese, Rumeno

INFORMAZIONE TECNICHE BLU-RAY
CONTENUTI AUDIO: Inglese DTS-HD MASTER AUDIO 7.1; Francese, Italiano, Tedesco DTS DIGITAL SURROUND 5.1;
SOTTOTITOLI: Inglese n/u, Francese, Italiano, Tedesco, Brasiliano, Danese, Olandese, Finlandese, Greco, Ebraico, Spagnolo, Latino, Americano, Norvegese, Polacco, Rumeno, Svedese, Turco, Estone, Lituano, Lettone
CONTENUTI EXTRA: I Miserabili: un approccio rivoluzionario; Il Capolavoro originale: I Miserabili di Victor Hugo; Trailer; Commento al Film del Regista Tom Hooper

La lunga estate torrida della Rizzoli: "Io ti guardo" di Irene Cao

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Cari lettori (e lettrici),
da poche settimane la Rizzoli ha sparato il suo best seller estivo. Romanzo impegnato? Roba da intellettuali? No. Memore del successo riscosso dalla Mondadori esattamente un anno fa con le 50 sfumature della James, la Rizzoli prova a replicare il successo con una trilogia scritta dall’autrice italianaIrene Cao, dalle atmosfere italianissime che vanno da una Venezia incantata e sensuale fino a Roma per concludersi a Stromboli, ai piedi di un vulcano simbolo di una natura vitale e selvaggia. Il primo volume si intitola Io ti guardo ed è oggetto della recensione di oggi. Gli altri due volumi sono in uscita, così da non fare attendere troppo le lettrici.

Questo per la cronaca non è il solo erotico che la casa editrice milanese ha sfornato in questo scorcio d’inizio estate: sugli scaffali esiste anche The Juliette society, della ben nota – per altri motivi – Sasha Gray.
Summer is coming, gente…

Io ti guardo
Titolo: Io ti guardo
Autore: Iren Cao
Editore: Rizzoli
Collana: Max
Pagine: 364
Prezzo: € 5,00
Trama: Se si potesse catturare il piacere, Elena lo farebbe con gli occhi. Ventinove anni, di una bellezza innocente ma sfacciata, non sa ancora cosa sia la passione. Il suo mondo è fatto di arte e colori, quelli dell’affresco che sta restaurando a Venezia, la città magica dove è nata. Fino a quando incontra Leonardo, uno chef di fama internazionale, che irrompe nella sua vita travolgendo ogni cosa: la storia d’amore appena nata con Filippo, l’idea che ha sempre avuto di sé e, soprattutto, il suo modo di vivere il sesso. Perché Leonardo, inquilino inatteso nell’elegante palazzo in cui lei lavora, è arrivato per schiuderle le porte di un paradiso inesplorato di cui solo lui possiede le chiavi. I segreti della cucina, della materia grezza che nelle sue mani si trasforma in estasi per il palato, non sono gli unici che conosce: Leonardo sa che il piacere è una conquista per tutti i sensi, ha una forma, un odore, un sapore. E guiderà Elena oltre i suoi limiti, fino al confine più dolce ed estremo dell’ossessione. Ma a una condizione: non dovrà mai innamorarsi di lui. Elena non ha scelta, può solo accettare il suo patto spietato e lasciarsi sedurre da quell’uomo dal passato oscuro, che sembra sfuggire al suo desiderio di legarlo a sé...

RECENSIONE
Protagonista della storia è Elena, restauratrice schiva e votata al suo lavoro, circondata dall’affetto timido di Filippo, amico dall’università che stenta a dichiararsi. Accanto a lei Gaia, PR per vocazione e spirito libero, del tutto opposto alla protagonista. Durante un restauro in un lussuoso palazzo veneziano, Elena conosce Leonardo, chef internazionale, sexy quanto basta e carattere volubile, che ha il compito di occuparsi del lancio di un nuovo ristorante esclusivo, di proprietà del committente del restauro, Jacopo. Da qui la liason al calor bianco, condita – è il caso di dirlo – da cibo, alcool e momenti di grande pathos emotivo.

Queste le premesse. In verità, l’esordio di Irene Cao è assai meno hard di altri volumi che possiamo trovare in libreria e questo, a parere di chi scrive, è un merito. L’autrice, pur senza lesinare in scene sensuali ed erotiche, non ha abbassato il livello a quello di un porno di bassa lega ma ha saputo gestire la tensione cercando di dare uno spessore psicologico ai personaggi che è assente in altri libri di genere (ad esempio al soporifero Gabriel’s inferno) e creando un conflitto drammatico forte all’interno della protagonista, divisa tra l’amore rassicurante di Filippo e la passione carnale per Leonardo.

Le scene erotiche non sono numerose, cinque o sei in tutto, ma sono dosate bene, in un crescendo che alterna momenti di introspezione psicologica a descrizioni sensuali, rese con un linguaggio esplicito ma non volgare. Dunque un testo superiore alla media dei volumi di genere, almeno sotto quest’aspetto. Elena oscilla tra la paura e l’orgoglio, tra l’esaltazione e la vergogna. Fortunatamente, l’Autrice è riuscita a imbrigliare questi aspetti del carattere della protagonista evitando così di renderla una pazza schizofrenica, e ha reso bene l’idea del conflitto interiore. Anche Leonardo appare combattuto quanto basta, un personaggio capace di intrigare pur rimanendo negli stereotipi del bello e maledetto.

Tuttavia, vi sono dei difetti che inficiano alcuni passaggi del romanzo, primo fra tutti il problema della ripetizione di alcuni concetti. Elena si lascia conquistare dalla passionalità anarchica di Leonardo ma nello stesso tempo la teme e soprattutto teme l’effetto che questa può avere nella sua vita e nella relazione con Filippo. Il rimorso, l’incertezza, i sensi di colpa affiorano a più riprese, e se magari possono essere giustificati nella parte iniziale, nella seconda porzione del romanzo – in cui l’adesione alla filosofia di vita di Leonardo diviene assoluta – trovano una giustificazione meno forte. Altro difetto, più che altro un peccato veniale, del romanzo è lo stile. Pur essendo curato e molto scorrevole, è ancora acerbo, a tratti insicuro, e questo si percepisce soprattutto nella parte iniziale del testo o nelle descrizioni di Venezia. Sono evocative e ben scritte ma si avverte chiaramente che l’autrice avrebbe potuto osare di più, allungare il passo e dare maggior tridimensionalità a una città che rappresenta un vero e proprio personaggio all’interno del tessuto narrativo. 

O ancora una scena in cui Elena descrive Leonardo che prepara dei piatti durante l’inaugurazione del ristorante. Vi è un potenziale inespresso in quella parte, poiché essa avrebbe potuto esprimere con maggior forza la bellezza dei gesti, la sensualità che scaturiva dai gesti dell’uomo. Purtroppo la descrizione finisce per risultare un po’ fredda, priva di quel pathos che, si capisce bene, l’Autrice ha cercato di imprimervi senza riuscire a farlo sino in fondo. Ciò fa ben sperare per i prossimi volumi, in cui l’Autrice avrà modo di prendere maggiore confidenza con le proprie potenzialità espressive e portare la vicenda a un livello superiore sia dal punto di vista descrittivo che per l’approfondimento psicologico.

Io ti sentoPer concludere. Un romanzo disinibito ma non volgare o morboso, un testo di women fiction con scene esplicite. Se cercate qualcosa di pepato (e una protagonista intelligente, che non abbia vent’anni e la personalità di una Barbie) ma non troppo piccante, una lettura godibile che vi lasci con la voglia di sapere come si conclude la vicenda, allora questo fa per voi.

Infine: è uscito in questi giorni anche il secondo volume, Io ti sento. Presto sapremo come Elena risolverà l'empasse in cui si è cacciata.


L'AUTRICE
Irene Cao è nata a Pordenone nel 1979. Ha studiato Lettere Classiche a Venezia, dove ha conseguito anche un dottorato in Storia Antica. Attualmente vive in un piccolo paese del Friuli. Con questo romanzo inizia la prima trilogia erotica italiana, che è già in corso di traduzione in Spagna, Germania e Brasile.

Recensione “Lo strano mondo di Alex Woods” di Gavin Extence

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Autore: Gavin Extence
Titolo: Lo strano mondo di Alex Woods
Titolo Originale: The Universe Versus Alex Woods
Traduzione di Letizia Sacchini
Casa Editrice: Garzanti
Pagine: 352
Prezzo: € 16,40 hardcover; 11,99 e-book
Data pubblicazione: 24 aprile 2013
Trama: Per Alex Woods la notte è un momento magico, l'unico momento in cui può gettarsi la paura alle spalle. Ogni notte si affaccia alla finestra per guardare le stelle. La stanza è invasa da libri di astronomia, la sua passione. Studiare le eterne e immutabili leggi che regolano l'universo è l'unico modo per fuggire dalla sua vita disordinata. Alex sa cosa significa essere strano. Non ha mai conosciuto suo padre e sua madre è una lettrice di tarocchi che l'ha cresciuto in un negozio pieno di candele, incensi e pozioni. E da quando ha dieci anni soffre di attacchi epilettici che riesce a controllare solo ascoltando musica classica ed enumerando i nomi delle costellazioni. A scuola i bulli lo perseguitano senza tregua. Un giorno, mentre fugge dall'ennesimo pestaggio, Alex cade e rotola in un giardino, devastando la siepe. Quando apre gli occhi si trova la canna di un fucile piantata in faccia. A imbracciare l'arma è il signor Peterson, un bislacco e arcigno vedovo. Un uomo solo, con una ferita nel cuore che non ha intenzione di rivelare a nessuno. Fra i due nasce la più improbabile delle amicizie, fatta di coltivazione di sostanze stupefacenti e letture dei romanzi più dissacranti. Ma quando il signor Peterson scopre di avere una grave malattia per Alex giunge il momento di sovvertire tutte le leggi dell'universo e intraprendere il più strambo dei viaggi. Perché solo lui può salvarlo...


RECENSIONE
L'universo contro Alex Woods: questo il titolo del romanzo in inglese. Un titolo che spiega tutto, perché il giovane Alex Woods ha tutto l'universo contro, e per 'universo' non intendo soltanto gli abitanti di questo pianeta, ma molto di più. Come spieghereste, altrimenti, la caduta di un meteorite sul tetto della sua casa che, quando lui aveva undici anni, gli ha aperto il cranio come un guscio d'uovo?

Sopravvissuto a questo ‘attacco’, il giovane Alex sarà soggetto a crisi epilettiche, che lo costringeranno a studiare in casa per un anno, aumentando la sua già chiara fama di ‘ragazzo strano’: Alex non sa chi sia suo padre, non ne ha mai avuto uno, e sua madre è una sorta di fattucchiera, con un negozio di occultismo, al cui interno legge i tarocchi. Questo anno solitario renderà Alex preparatissimo in materie che 'lo riguardano da vicino': legge testi accademici di neurologia e astronomia, acquisendo nozioni sconosciute ai suoi coetanei; è invece pressoché ignorante in materie comuni e soprattutto nell'approcciarsi con gli altri adolescenti.

È naturale, dunque, che Alex diventi presto la vittima dei bulli della sua scuola; non è altrettanto naturale che il ragazzo abbia contro di sé sia il preside, che vuole vedere solo la forma e non la sostanza (e si fa abbindolare da una faccia contrita, andando invece in collera per l'utilizzo di un turpiloquio perfettamente giustificato dalle circostanze), sia sua madre che, chiusa nella sua bolla di elementi soprannaturali e dedita a interpretare le carte secondo il verso e la posizione che occupano, non si preoccupa di interpretare i più complessi comportamenti umani. Ecco che Alex – la vittima – viene accusato di vandalismo, di turpiloquio, di comportamento scorretto, tutte azioni di cui è innocente o, al limite, per le quali è stato fortemente provocato.

Le uniche persone che Alex sente dalla sua parte sono la dottoressa Weird, un'astrofisica in procinto di specializzarsi in scienza planetaria all'Imperial College di Londra, la prima a rimuovere il meteorite dal bagno di Alex per studiarlo, il signor Peterson, incontrato – o per meglio dire, invaso – un giorno in cui Alex cerca di sfuggire ai suoi aguzzini, e il Dr. Enderby, il neurologo che lo ha in cura, un buddista che ha nel suo studio il brano di poesia di Emily Dickinson:
Il Cervello ha giusto il peso di Dio – 
Perché – dividili – Libbra per Libbra – 
Ed essi differiranno – se lo fanno – 

Come la Sillaba dal Suono. 
Versione di Amelia Rosselli da Emily Dickinson, Tutte le poesie, trad. it. di AA. VV., Mondadori, Milano 1994;
Il rapporto con questi tre adulti è per il ragazzino una guida, ciò che farà di lui quel che è,perché queste tre persone sono disposte a parlare con Alex, a spiegargli come funziona il mondo (sebbene solo dal loro punto di vista), ad accettare la persona speciale che è.

Col signor Peterson si instaura un rapporto di amicizia strettissima, una parentela d'adozione, un affetto profondissimo indotto non soltanto da due solitudini che si incontrano, ma anche da una purezza d’intenti. Il signor Peterson è tutt'altro che perfetto, secondo i criteri del preside di Alex e di molti altri adulti, e forse di sua madre– disposta anche a chiudere un occhio, perché vede quanto quell'amicizia faccia bene a entrambi –: impreca, fuma erba (che coltiva nel solaio), ha idee bislacche; ma il signor Peterson insegnerà ad Alex cosa voglia dire essere pacifisti e liberali, e Alex imparerà ad avvalersi di quegli stessi principi.
«Per quel che mi riguarda», disse, «se sei grande abbastanza per desiderare di restare, lo sei anche per restare. Ma io sono quello che molti definirebbero un liberale. Sai cosa significa?» 
Soppesai il termine. «Che crede nel libero mercato?» 
Herr Schäfer sorrise. «No, non proprio. Almeno non troppo. Significa che credo che ogni individuo debba essere libero di decidere per sé stesso, senza che altri gli dicano cosa deve o non deve fare. L’unica cosa che non siamo liberi di fare è ferire o sfruttare altre persone, e questo è un po’ diverso dal credere nel libero mercato.»
Legati dall'amore per la lettura, in particolare di Kurt Vonnegut, Alex e il signor Peterson coltiveranno un'amicizia profonda che, partendo dalla saggezza delle esperienze passate del signor Peterson, si proietterà nel futuro pieno di speranze per la persona meravigliosa che diventerà Alex grazie a essa.

Non so cosa stia accadendo in Inghilterra in questo periodo: so che sono diversi anni che si parla di suicidio assistito. Forse l'uscita nell'arco di pochissimi mesi di ben due romanzi acclamatissimi che ne parlano (Io prima di te di Jojo Moyes e Lo strano universo di Alex Woods) serve a far riflettere e a mobilitare qualcosa. Non voglio esprimere un mio parere in merito, perché questa è una questione molto delicata che, secondo la mia opinione, va valutata e sviscerata di caso in caso. Mi limiterò a parlare non del soggetto che vuole usufruire di questa forma di libertà, bensì di coloro che stanno vicini al suicida e della LORO scelta di assisterli nella pratica finale. Essi infatti verranno bersagliati dai media, accusati dalla polizia, talvolta anche condannati al carcere; in parole povere, si ritroveranno l'universo contro, perché spesso si crede che essi agiscano per interesse personale, anziché per compassione.
Prima di rispondere aspettai qualche secondo, per essere sicuro che mi ascoltasse con attenzione.
«Questa non è una scelta sua. Lei è convinto di avere il diritto di decidere del proprio destino, e io sono d’accordo al centouno per cento. Le chiedo soltanto di concedermi lo stesso diritto. Ho preso questa decisione in base ai miei princìpi, ho ascoltato la mia coscienza. Non sarebbe giusto da parte sua negarmi questa possibilità. Se mi rispetta almeno un po’, deve lasciarmi scegliere.»
Alex, dunque, si troverà ancora una volta tutto l'universo contro, e non soltanto perché verrà sospettato di chissà quale interesse: sul suo rapporto col signor Peterson verrà fatta ogni genere di illazione, cercando di infangare quell'affetto puro, liberale e pacifico che ha aiutato Alex a combattere e a crescere. Ma la scelta di Alex è una scelta chiara, innocente e coraggiosa proprio come lui, una scelta dettata dall'amore verso una persona che è una delle più importanti della sua vita, e solo le persone che non sono a posto con la propria coscienza possono vedere il male in una scelta così pulita e altruista.

Non è una lettura facile, dato l'argomento, ma scorre perché raccontata dalla voce innocente di Alex, che ripercorre la sua storia partendo quasi dalla fine, con numerosi flashback e salti temporali. Il titolo italiano, secondo me, non rende bene il contenuto del libro come avrebbe fatto L'universo contro Alex Woods (traduzione letterale del titolo inglese, che non mi pare neanche tanto cacofonica.)

Un romanzo che fa riflettere su moltissimi argomenti, grazie anche agli innumerevoli spunti letterari che Extence fornisce nell'arco della sua storia, un argomento scottante in Inghilterra, e non solo, trattato con delicatezza e tanta sensibilità.
La cosa più importante che ho imparato su Tralfamadore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato è ancora viva, per cui è veramente sciocco che la gente pianga al suo funerale. Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno. I tralfamadoriani possono guardare i diversi momenti proprio come noi guardiamo un tratto delle Montagne Rocciose. Possono vedere come tutti i momenti siano permanenti, e guardare ogni momento che gli interessa. È solo una nostra illusione di terrestri credere che a un momento ne segua un altro, come nodi su una corda, e che quando un istante è passato sia passato per sempre.

(Kurt Vonnegut, Mattatoio n°5)


L'AUTORE
Gavin Extence è nato nel 1982 e cresciuto nel villaggio di Swineshead, Lincolnshire, Inghilterra. Tra i 5 e gli 11 anni ha goduto di una carriera breve ma illustre come giocatore di scacchi, vincendo numerosi campionati nazionali. A Mosca e San Pietroburgo si è trovato a competere con le giovani promesse degli scacchi: ha vinto una sola partita. Dopo il successo mondiale del suo primo romanzo Lo strano mondo di Alex Woods, sta già lavorando al suo secondo. Quando non scrive ama cucinare, dedicarsi all’astronomia amatoriale e andare ad Alton Towers, il principale parco divertimenti della Gran Bretagna.

Recensione "Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura" di Guido Paduano

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Cari lettori,
se vi capita di approcciarvi alla teoria della letteratura e la vostra espressione è "COSA?!", gridato con angoscioso senso di inferiorità, il libro di Guido Paduano, Il testo e il mondo, è quello che fa a caso vostro... finalmente la teoria, tanta e complessa, spiegata con un linguaggio semplice e accessibile. Se ne esce arricchiti, e con la voglia di saperne di più! 

Autore: Guido Paduano
Titolo: Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura
Casa Editrice: Bollati Boringhieri
Pagine: 144
Prezzo: 16 €
Data Pubblicazione: gennaio 2013
Sinossi: Tra le parole e le cose esiste uno stadio intermedio, dove le parole esprimono la loro tensione inesausta a diventare cose. L'officina di questa metamorfosi impossibile, e sempre ritentata, si chiama letteratura. Accanto al mondo vero, i testi letterari allestiscono un intramondo provvisto di statuto peculiare, un luogo di delizie per la mente e per i sensi la cui separatezza ha offerto materia a esplorazioni critiche senza fine. Le opere non solo racchiudono un'idea del mondo, ma sono esse stesse uno spicchio di realtà che necessita di essere interpretato: sfugge o no a una definizione? quali codici lo reggono? gli si possono applicare plausibilmente le categorie di unità e universalità, anticipazione e ambivalenza? e soprattutto, è legittimo sottoporlo a un giudizio di valore? Questioni classiche che la teoria della letteratura ha affrontato, costeggiato, talora eluso sotto la spinta di pregiudiziali ideologiche o nascosto dietro un eccesso di modellizzazione. Guido Paduano invece non esita a riportarle al centro del discorso, nella loro imprescindibile essenzialità. Arruola allo scopo una strabiliante confidenza con testi di ogni tempo e di genere differente, dai poemi omerici al teatro shakespeariano al melodramma, una consuetudine altrettanto rara con l'intera tastiera degli orientamenti critici, e il tono affabile che ci aspettiamo da un grande studioso. Gli strani oggetti di quel mondo a parte che la letteratura ci regala adesso appaiono più nitidi e ancora più attraenti.


RECENSIONE
Esistono categorie critiche che devono essere periodicamente rinegoziate e ridiscusse. È il caso di definizioni quali il letterario contrapposto al non-letterario, la volontà d’autore, il ruolo del lettore nella creazione del significato di un testo, il valore delle opere di secondo grado, i rapporti testualità-mondo e testualità-uomo, il giudizio di valore. C’è periodicamente bisogno di creare dei percorsi che permettano di sottrarsi a una soffocante ipertrofia critica. Tutto questo, con un’attenzione alla semplicità del linguaggio e alla chiarezza espositiva, a volte però inficiata dal mancato riferimento a testi che seguano da vicino gli sviluppi più recenti del dibattito critico internazionale, è quanto si propone di fare Guido Paduano ne Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura. Bisogna sottolineare la parola “elementi”, in quanto il testo dell’Autore non ha pretesa di essere una rassegna critica sistematica delle diverse declinazioni di teoria letteraria, come invece poteva essere, pur tenendo conto della necessità di una selezione dei materiali, Che cos’è la teoria della letteratura di Giovanni Bottiroli (Einaudi, Torino 2006). Il testo e il mondo invece si concentra, in tre capitoli, su specifici nodi problematici: che cos’è la letteratura, quali elementi entrano in gioco nella comunicazione letteraria, di che cosa parla la letteratura.

Premessa: è noto che l’Autore è un filologo classico, ma anche studioso di letterature comparare attento alla Nachleben (oggi si preferisce afterlife) del mito: si ricorderà ad esempio Lunga storia di Edipo Re (Einaudi, Torino 1994; di recente riproposto, in forma abbreviata, dai tipi di Carocci: Edipo. Storia di un mito, 2008). Rifiutando, o per lo meno stemperando molte posizioni conservatrici della filologia classica, Paduano affronta una serie notevole di questioni critiche che ne evidenziano l’ampiezza di vedute, e non si limita tuttavia a un’arida esposizione di teorie, ma compie sempre una pragmatica verifica sui testi. Notevoli sono la quantità e qualità degli exempla: se la maggior parte viene dalla letteratura classica, non mancano incursioni nella tragedia shakespeariana e nel melodramma (per quest’ultimo aspetto c’è l’ombra di uno studio precedente, Se vuol ballare. Le trasposizioni in musica dei classici europei, Utet, Torino 2009, a sua volta anticipato da due monografie dedicate all’Ernani e a Puccini).

Se la domanda “che cos’è la letteratura?” posta dall’Autore nella prima parte del saggio potrebbe apparire quasi oziosa, essa trova la propria ragione di essere nel suo collegamento con il problema del giudizio di valore, in quanto l’etichetta “letterario” porta all’inclusione o all’esclusione di un testo dal ristretto numero di opere che vengono lette e studiate, commentate e tramandate. La possibilità di definire il letterario tramite le coppie dicotomiche prosa/verso, linguaggio connotativo/linguaggio denotativo viene confutata tramite argomenti serrati e convincenti; Paduano propone infine una definizione che trova le proprie origini nel pensiero di Gorgia, Platone, Aristotele: la letteratura inserisce il destinatario in una dimensione esistenziale “altra”, inducendo perciò il piacere dell’identificazione emotiva. Il capitolo analizza anche la possibilità e i rischi di testi non-letterari che vengono usati come letterari (cercando ad esempio in essi uno specchio fedele della realtà storica del proprio tempo), e degli effetti invece del procedimento inverso: la letteralizzazione di testi non letterari. Paduano conclude con la necessità di inserire ogni testo in un reticolo di influenze e rapporti che esuli dalla lingua, dal tempo e dalla cultura in cui quello stesso testo è stato scritto, in una prospettiva perciò sempre comparatistica. Coincidenza tra lingua, cultura e letteratura non è chiaramente più accettabile, soprattutto in questi anni in cui si sono affermati campi di studio, che forse hanno successo più nella teoria che nella pratica, come i reception studies e la world literature.

Il secondo capitolo è dedicato in maniera particolare al tema delle interazioni tra emittente e ricevente del messaggio letterario. Anche quando la riflessione di Paduano si limita all’esposizione di questioni già ampiamente note e sembra citare, in maniera forse troppo frequente, i pur fondamentali Il demone della teoria di Antoine Compagnon ed Estetica della letteratura di Massimo Fusillo, gli exempla che l’autore chiama in campo mirano a verificare sul campo la validità della teoria, validità che troppo spesso viene data per assodata. A volte l’analisi testuale esprime una neanche troppo velata critica verso molte posizioni di un certo delirante “fondamentalismo critico” di matrice decostruzionista, soprattutto in rapporto alla questione tra chi, nel rapporto autore-lettore, debba avere il sopravvento. Paduano sottolinea sempre il bisogno di complessità, di interazione dinamica. L’esempio del melodramma, in cui coesistono autore del libretto, autore delle musiche, direttore d’orchestra, regista, personalità attoriali, e solo infine il pubblico, problematizza la famosa “morte dell’autore” teorizzata da Barthes e diventata quasi un cliché critico. Certo Paduano non riabilita la categoria dell’autore come elemento capace di essere il migliore interprete di se stesso come aveva invece fatto Eric Hirsch, e tiene infatti in considerazione il narcisismo e la faziosità che ogni autore attua nei confronti di se stesso e della propria opera. Da qui si nota un’adesione al pensiero di Gadamer, in contrasto con l’ermeneutica di Schleiermacher, i cui presupposti della comunione di spiriti tra critico e autore interpretato ancora permea molta della critica italiana. Gadamer è invece l’ermeneuta dell’interpretazione nella diversità, così lontano da ogni recupero archeologico del passato.

Ancora centrale nella riflessione sul ricevente è l’elogio della seconda lettura, in contrasto con la pretesa filologica di ritornare all’effetto originario sul pubblico contemporaneo all’autore in questione, dato che è problematico stabilire che cosa si indichi con pubblico “contemporaneo” – ed è da notare come questa difficoltà venga vissuta ancora in questi anni sulla controversa definizione di arte “contemporanea”, in quanto ogni arte è sempre stata contemporanea al proprio tempo. Paduano sottolinea come il pubblico dell’autore possa non essere il più – o forse addirittura per antitesi, essere il meno – qualificato per ricevere l’opera, accostandosi, pur senza citarla apertamente, alla categoria di “tempo grande” di bachtiniana memoria. Appropriato a questo riguardo è l’esempio del rapporto che I Persiani di Eschilo intrattengono con l’orizzonte di attesa del proprio pubblico: se la vittoria di Salamina rappresenta una costante nell’ideologia occidentale anche in tempi molto recenti, quale distanza dal contesto originario è necessaria, si domanda Paduano, perché un’opera non sia fraintesa?

In apertura del terzo capitolo, a ricordo costante del fatto che letteratura e mondo intrattengono un rapporto viscerale nonostante i tentativi di ridurre la prima a puro cannibalismo di se stessa, viene sempre richiamata la Poetica di Aristotele e la sua definizione di “mimesis di persone in azione”. L’Autore sottolinea l’attualità di Aristotele nel definire i rapporti tra personaggio e realtà a patto che «[…] le “persone” e la felicità che esse inseguono vengano intese non come necessariamente individuali, ma anche collettive» (p. 102). Senza però accettare la mimesis come passivo processo di identità, Paduano la legge come esercizio attivo della ragione, per cui emerge «[…] una concezione della poesia come selezione dei tratti del reale e loro pertinentizzazione […]» (p. 106). Attraverso l’analisi del programmatico e citatissimo racconto di Borges Pierre Menard, autore del Chisciotte, l’Autore può arrivare a dire che «[…] anche ammettendo che la realtà non esista, la letteratura si comporta comunque come se esistesse». Ma esiste uno stadio intermedio tra i due mondi – reale e letterario – il cui esempio migliore è la metaletteratura, in cui due livelli agiscono l’uno sull’altro, come nella scena della compagnia degli attori nell’Amleto.

Terminano il volume una rassegna dei legami tra letteratura e teorie psicanalitiche freudiane, mediate però dalla sistematizzazione di Ignacio Matte Blanco, e soprattutto una purtroppo sintetica e sacrificata analisi del problema del giudizio di valore, questione che negli ultimi anni è prepotentemente tornata al centro dell’attenzione critica.

Paduano, conscio delle resistenze che nell’ambito degli studi classici provoca il pensare che l’analisi dei rifacimenti di un testo possa aggiungere qualcosa di nuovo all’interpretazione stessa, dedica una breve trattazione al pregiudizio di valore, fenomeno che però si sta attenuando soprattutto in contesto anglosassone. La reversibilità della lettura è implicita nell’ermeneutica gadameriana, così spesso citata dall’Autore, e ripresa infinite volte fino al provocatorio capitolo di Charles Martindale a introduzione di Classics and the Uses of Receptions del 2006, intitolato proprio Thinking Through Reception, o alla riesamina del concetto di “classico”, con al centro l’esperienza filosofica di Gadamer, proposta da Giuseppe Cambiano in Perché leggere i classici (il Mulino, Bologna 2010). Il pregiudizio di valore sicuramente esiste, soprattutto in senso agli studi letterari italiani, ma la critica più recente ne sta progressivamente riducendo la portata.

L'AUTORE: Guido Paduano, uno dei maggiori classicisti italiani, insegna Filologia Classica all'Università di Pisa. Importanti i suoi studi sul teatro antico e sul melodramma. Da ricordare anche le sue traduzioni delle Argonautiche di Apollonio Rodio, dell'Iliade di Omero e delle Metamorfosi ovidiane. Influenzato dalla critica psicoanalitica, ha dato via alla scuola che, nel settore dell'antichistica e della comparatistica, ha dato i risultati più fecondi. 

Recensione “Miss Charity” di Marie-Aude Murail

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Cari lettori,
oggi vi parlo di un libro che mi ha conquistata piano piano e che alla fine ho letteralmente divorato, un libro adatto a tutte le età come Jane Eyre, Mansfield Park o Nicholas Nickleby, solo per nominare tre romanzi a cui sembra strizzare l'occhio, un libro che parla delle donne di talento nell'Inghilterra vittoriana e delle difficoltà che incontravano a esprimere le loro doti.

Liberamente ispirato alla vita della scrittrice e disegnatrice inglese Beatrix Potter, Miss Charity di Marie-Aude Murail è un piccolo gioiello che mi sento di consigliare a tutti.

Autore: Marie-Aude Murail
Titolo: Miss Charity
Traduzione di Federica Angelini
Casa Editrice: Giunti
Collana: Extra
Pagine: 480
Prezzo:€ 12,90
Data pubblicazione: 5 giugno 2012
Trama: Charity è una bambina che, come tutti i bambini, è piena di curiosità, assetata di contatti umani, di parole e di scambi, e vuole creare e partecipare alla vita del mondo. Purtroppo però, essendo una ragazzina della buona società inglese dell’800 deve tacere, non mostrarsi troppo, salvo che in chiesa. Allora Charity si rifugia al terzo piano del suo palazzo in compagnia della servitù. Per non morire di noia, alleva dei topini nella nursery, veste un coniglietto, studia dei funghi al microscopio, impara Shakespeare, e disegna incessantemente dei corvi, con la speranza che un giorno succeda qualcosa… Così comincia la vita di Charity Tiddler, ragazzina prima, e donna poi, che fa della libertà un principio di vita e, in nome di questa, sovverte tutte le regole borghesi della vita vittoriana. Un romanzo attuale in cui l’ironia, il pettegolezzo e le dinamiche di una società snob, rievocano in chiave contemporanea la produzione di Jane Austen. Come affermato dall’autrice stessa: “Miss Charity è un romanzo vittoriano che è come l’iniziazione dei miei giovani lettori agli autori anglosassoni che amo di più: Dickens in testa, poi Jane Austen, le sorelle Bronte, Oscar Wilde e Bernard Shaw”.


RECENSIONE
La prima cosa che mi ha colpita di questo romanzo sono stati i dialoghi: essi vengono inseriti senza caporali o virgolette e ogni frase è introdotta dal nome del locutore in maiuscoletto. In pratica sembra di leggere una commedia e non un romanzo, questo perché la nostra narratrice, Miss Charity, è appassionata di teatro, conosce tutto Shakespeare a memoria fin dall'infanzia e, più avanti, conoscerà anche Oscar Wilde e George Bernard Shaw, citando a memoria i loro aforismi. È dunque normale che questa forma di scrittura le sia più congeniale; del resto, il teatro sarà un fattore fondamentale nella vita di questa ragazzina strana che, per vincere la noia, la paura, l'imbarazzo o qualsiasi sentimento negativo, recita nella sua mente l'Amleto, Romeo e Giulietta o La bisbetica domata, e lo diventerà ancora di più quando uno dei personaggi ricorrenti della sua vita, Kenneth Ashley, dal cui fascino è conquistata fin da bambina, intraprenderà la carriera di attore.

Il dialogo espresso in questa forma, inoltre, avvicina la Murail a Jane Austen, a cui è stata associata nella presentazione di Miss Charity: così, infatti, le parole dei dialoghi diventano essenziali, proprio come in una commedia, ed esprimono il carattere di ogni personaggio meglio di mezza pagina di descrizione.

Un altro legame con Jane Austen è il rapporto di Charity con le cugine Bertram. La Murail non ha scelto questo cognome a caso. La zia, nonché madrina di Charity, Lady Bertram somiglia in modo allarmante alla sua omonima in Mansfield Park.
C’erano una decina di bambini a Bertram Manor per le vacanze di Natale. Lady Bertram adorava i bambini. Ma, siccome non sopportava il rumore, di loro si occupava Zia Janet.
Lydia e Ann, proprio come Maria e Julia sono due signorine molto ricche e molto viziate e Charity vivrà le estati nel Kent, a Dingley Bell, vicino a Bertram Manor, alla loro ombra e provando un sentimento non proprio di invidia, ma sicuramente di inferiorità economica e sociale. E proprio come in Mansfield Park si parlerà di allestire una commedia, grazie al talento istrionico di Kenneth Ashley (l'Henry Crawford della situazione, di cui sono innamorate entrambe le cugine Bertram).

Ma presentiamo la protagonista: Charity Tiddler è una bambina speciale e solitaria. È cresciuta da sola nella nursery con i fantasmi delle sorelline morte in fasce, Prudence e Mercy, una tata scozzese, Tabitha – che chissà quali traumi ha vissuto prima di arrivare in quella casa, dato che i suoi racconti sembrano storie dell'orrore e la sua mente pian piano comincerà a svanire, rivelando la sua pazzia – e il suo piccolo serraglio.

È curiosa Charity: osserva tutto ciò che è legato alla natura, tutte le creature più piccole, che siano insetti o topini, ma anche ratti, ricci, conigli, uccelli. Gli animali selvatici diventano i suoi animali domestici, i suoi amici più cari: la Signora Passettini, Miss Tutu, Master Peter. E quando, per darle un minimo d'istruzione che la metta a un livello accettabile per una signorina della sua classe sociale, le verrà affiancata un'istitutrice che le insegni pianoforte, francese e disegno, Mademoiselle Blanche Legros, Charity studierà e osserverà il mondo animale e vegetale con l'occhio scientifico del pittore che deve riprodurlo.

Il suo talento si manifesterà da subito, ma Charity, pur non avendo altre risorse finanziarie e venendo trattata dai suoi genitori come una bambina, anche quando ormai non lo è più, non potrà sfruttarlo per guadagnare la sua indipendenza, dal momento che l'attività 'commerciale'è considerata esecrabile già per i gentiluomini, figuriamoci le signorine perbene. Eppure Charity, con l'aiuto di Mademoiselle e di Herr Schmal, il precettore tedesco del cugino Philip, insisterà con le sue storie per bambini, che hanno per protagonisti i suoi stessi animali, anche se esse non hanno quel carattere didascalico e moralista che veniva richiesto dagli editori per l'infanzia dell'epoca.

Il suo essere donna è un handicap: alcuni editori, che avrebbero considerato accuratissimi i suoi disegni di funghi per un piccolo catalogo se questi fossero stati eseguiti da un giovanotto, le rinfacciano di non essere precisa; altri la sfruttano, vendendo biglietti d'auguri disegnati da lei con conigli e maialini, dopo averla pagata una miseria solo perché donna.

La narrazione in prima persona e l'indipendenza di Charity fanno pensare a Jane Eyre di Charlotte Brontë. La Murail denuncia inoltre la situazione in molti istituti scolastici in Inghilterra, in cui sia agli allievi che agli insegnanti venivano negate le esigenze primarie, come cibo, acqua e riscaldamento, lasciandoli a patire ogni sorta di malattia, esattamente come accade alle allieve di Lowood School in Jane Eyre. Altro riferimento a Jane Eyre potrebbe essere considerata la pazza nell'attico: in questo caso si tratta di Tabitha, la tata di Charity, a cui la ragazza è affezionata come a una sorella maggiore.

E, a proposito di malati di mente, la Murail denuncia la loro situazione all'interno di Bedlam, tale condizione non poteva essere migliorata neanche corrompendo i custodi disonesti, che intascavano il denaro riservato ai pazienti senza occuparsi di ciò per cui erano stati pagati.

Anche con Dickens, Nicholas Nickleby in particolare, ci sono numerosi punti di contatto. L'istituto privato, di cui abbiamo parlato prima, che diventa una sorta di prigione, innanzi tutto, i legami dei personaggi con il teatro, poi, ma soprattutto il periodo storico e la folla di personaggi sfaccettati (animali compresi) che brulicano fra le pagine di questo romanzo.

Questa storia è ispirata alla vita di Beatrix Potter, ma la Murail ha voluto per la sua eroina un lieto fine in campo sentimentale, cosa che, purtroppo, la Potter non ebbe. Parimenti le eroine di Jane Austen, pur essendo per alcuni aspetti le alter ego della loro creatrice, riescono sempre a sposare l'uomo della loro vita, cosa che Jane Austen non fece mai.

Un romanzo che dovrebbe essere nella libreria di ogni adolescente, e non solo, perché, nel leggerlo, si ha l'impressione di leggere un classico della letteratura.

L'AUTRICE
Marie-Aude Murail è una delle più importanti autrici francesi per ragazzi. In venticinque anni ha pubblicato più di 90 titoli che le hanno portato importanti premi internazionali e la nomina a Cavaliere della legione d’Onore francese. Nei suoi libri affronta temi delicati come la crescita affettiva, l’omosessualità, i legami e la giustizia e riesce a farlo con grazia e con trascinante ironia. In Italia con Giunti ha pubblicato Baby sitter blues, Oh boy! (in Francia vincitore di numerosi premi tra cui il Prix Tam Tam, Prix Sésame, Prix Frissons Vercors, diventato anche un film per la televisione; in Italia vincitore del Premio Paolo Ungari Unicef e secondo classificato secondo al Premio Cento), Mio fratello Simple (vincitore del prestigioso Jurgendliteraturpreis alla Fiera di Francoforte 2008), Nodi al pettine (secondo classificato al Premio Cento 2013 e selezionato tra i cento libri imperdibili per ragazzi 2013 scelti da AIE, AIB e Nati per leggere), Cecile il futuro è per tutti, Picnic al cimitero e altre stranezze. Un romanzo su Charles Dickens

Recensione "L'ultima estate a Deyning Park" di Judith Kinghorne

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ovvero come prendere un’idea di fondo e trasformarla in un brutto libro. Sì, cari lettori: Deyning Park di Judith Kinghorne è un libro brutto, senza se e senza ma.
Perché un giudizio così tranchante? Leggete la recensione e lo scoprirete.

Titolo: L'ultima estate a Deyning Park
Autore: Judith Kinghorne
Titolo originale: The Last Summer
Traduzione di Francesca Toticchi
Editore: Nord
Pagine: 389
Prezzo: € 16,60
Trama: L'estate è la stagione più bella a Deyning Park. E come se la grande tenuta della famiglia Granville si risvegliasse dal torpore invernale per prepararsi a ospitare balli eleganti e ricevimenti sfarzosi. Anche per la giovane Clarissa l'estate è una stagione di rinascita; dopo mesi di solitudine, lei può finalmente riabbracciare i fratelli e godere di una nuova, inaspettata compagnia: quella di Tom, l'affascinante figlio della governante che, grazie all'intervento di un misterioso benefattore, ha potuto iscriversi all'università. Dapprima intimidita da quel ragazzo così taciturno e rispettoso del proprio ruolo - stare sempre un passo indietro e assistere alla vita dei Granville da dietro le quinte -, Clarissa a poco a poco stringe con lui una profonda amicizia, che poi sfocia in un grande amore. Un grande amore segreto, perché è chiaro che i suoi genitori non lo approverebbero mai. Ma Tom è ambizioso e determinato, e le fa una promessa solenne: una volta terminati gli studi, si trasferirà a Londra per esercitare la professione di avvocato e, non appena sarà diventato abbastanza ricco da colmare il baratro che lo separa dai Granville, chiederà la sua mano. Il destino, però, volta loro le spalle. Non soltanto qualcuno scopre la loro relazione clandestina, ma è il 1914, e quella sarà l'ultima estate di felicità a Deyning Park. Come una tempesta, la guerra si abbatterà sull'Inghilterra, spazzando via i sogni di Clarissa e le aspirazioni di Tom, la fortuna dei Granville e l'innocenza della giovinezza...

 RECENSIONE
Clarissa ha sedici anni, è ricca, bella, ingenua e ha tutta la vita davanti. Vive in una tenuta grande con un giardino immenso, un luogo idilliaco. Deyning park. Con lei la sua famiglia, i genitori e tre fratelli maggiori. Accanto a loro uno stuolo di servitori, tra cui la governante, Mrs Cuthbridge e suo figlio Tom. Ragazzo ambizioso e di belle speranze, Tom sa di non essere parte di quel mondo dorato, anche se Clarissa e i suoi fratelli lo coinvolgono spesso nei loro divertimenti. Tra Tom e Clarissa, come è da copione, scocca l’attrazione, peraltro debitamente contrastata dalla di lei mamma (algida e formalista come da copione) che le ricorda come lui non sia alla sua altezza.

Ma i due continuano a frequentarsi, imperterriti, fino a che non accade l’imponderabile: prima l’assassinio del Granduca a Sarajevo e poi lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. I fratelli di Clarissa partono per il fronte, e così pure Tom: tutti sono convinti di dover fare la loro parte per respingere gli Unni. I due innamorati provano a restare in contatto ma dopo un breve periodo le lettere di Tom cessano e Clarissa viene portata a Londra dalla madre. Deyning park è requisito per farne un ospedale militare, due dei suoi fratelli muoiono in battaglia, come alcuni loro amici. Uno di loro, Charlie resta accanto a Clarissa e il loro legame diventa più forte fino a che la ragazza non accetta di divenire sua moglie, negando così la promessa che aveva fatto a Tom di aspettarlo. Ma Tom torna, e i due si rivedono durante una festa presso la casa di una comune amica, Rose con cui il giovane ha intrecciato una relazione...

Non racconto oltre la trama. Il romanzo rappresenta a mio avviso, un clamoroso esempio di occasione mancata per narrare una storia bella e potente. Clarissa, la protagonista, è odiosa. Superficiale, priva di spessore, una canna trasportata dal vento che non reagisce in alcun modo. Non ci sono se o ma. Mantiene lo stesso atteggiamento da adolescente imbambolata per una buona metà del libro e nell’altra metà si trasforma in una persona totalmente incapace di gestire la propria vita.

Il romanzo ha un guizzo nelle ultime ottanta pagine quando, più o meno, la protagonista ha quasi trent’anni e decide di comportarsi da persona matura, scoprendo in sé insospettate doti di esperta d’arte e dando un minimo di sollievo al povero lettore esterrefatto dalla sua insipienza. Clarissa affronta un numero di traversie pari solo a quelle di Scarlett O’Hara, ma a differenza dell’eroina di Via col Vento, lei non reagisce. Si piange addosso, si lascia trascinare in un turbine di feste e di amicizie fasulle che non le lasciano nulla.

Due sono i passaggi che mi hanno colpito in maniera negativa, e che rappresentano a mio avviso il momento in cui l’Autrice avrebbe potuto imprimere una sterzata qualitativa al testo. Mi riferisco al momento in cui Clarissa dà in adozione la bambina avuta da Tom e alla fase successiva, in cui la ragazza affronta il dolore della perdita rifugiandosi nella morfina. Due temi delicati, dall’impatto forte, trattati con un atteggiamento superficiale che non dà nulla al lettore in termini di empatia o anche solo di emozioni, liquidati in poche pagine, senza un minimo di forza emotiva.

Al di là di questi episodi, il testo si contraddistingue anche per la pochezza dei personaggi di contorno. Lo stesso Tom Cuthbert appare bidimensionale, senza quel rilievo, quel tormento, quella rabbia che avrebbero dovuto caratterizzare un personaggio che è stato costretto a “farsi da solo”. Di lui abbiamo prima l’idea di un ragazzo ambizioso e di buon cuore e poi, dopo la guerra, di un uomo arricchito (non si capisce bene come) ma sempre di buon cuore, al limite dell’irrealtà.

Poco importa che lui lasci e prenda le fidanzate americane come kleenex. Clarissa è sempre il suo grande amore, dunque le altre non contano. E anche Clarissa, alla fine, nonostante abbia ancora i turbamenti che la scuotevano nei suoi sedici anni, non si fa mancare nulla. Ha perso due fratelli, una figlia, la sua famiglia d’origine è andata in rovina, l’amore della sua vita è irraggiungibile, ma lei si occupa delle mise da indossare alle feste. Ah, è di scarso rilievo che alla fine Charlie, il marito, sia diventato uno psicopatico violento dopo esser tornato dalla guerra. Di fatto è lui che la butta tra le braccia di Tom, una delle tante volte in cui i due tornano ad amarsi, prima di giurarsi di non vedersi più, cioè fino alla prossima volta.

Un romanzo insoddisfacente e spento sotto molti aspetti, con un finale che è un happy end che più happy non si può, un’iniezione di glucosio in vena dell’esausto lettore. L’ultima estate a Denying park è un’accozzaglia di luoghi comuni e di espedienti narrativi di romanzo di genere di bassa lega. Dello stile poco da dire: elementare, piatto, privo di interesse, con una spiacevole tendenza alle elencazioni.

Per finire, un suggerimento alla casa editrice. Evitate di associare Il Grande Gasby e Downton Abbey a un libro del genere. Paragonare Tom Cuthbert a Gasby è un insulto, come pure associare le atmosfere curate di Downton Abbey a quelle da cartolina di Denying Park. Non hanno nulla in comune, se non il periodo storico.

L'AUTRICE
Judith Kinghorn è stata per vari anni direttore generale di un’importante agenzia londinese di selezione del personale. A un certo punto della sua vita, però, ha deciso di mollare tutto per dedicare più tempo alla sua famiglia e soprattutto alla sua grande passione: la narrativa. Insieme col marito e i due figli, ha lasciato la città e si è trasferita nello Hampshire, dove ha iniziato a scrivere il suo primo romanzo, L’ultima estate a Deyning Park
Sito Autrice

Nuove meteore editoriali: il New Adult

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C’erano una volta i flame, ovvero delle lunghe, lunghissime discussioni a cui soggiace l’istinto atavico che da sempre ha spinto l’uomo ad attaccare, sbranare e distruggere l’avversario. Non preoccupatevi: il filtro della rete impedisce alle persone di farlo fisicamente. Al posto dei pugni e del sangue, volano parole e insulti. Che è circa la stessa cosa. Il flame sembra una cosa brutta, e in verità dovremmo aborrire tale triviale pratica se seguissimo una qualsivoglia condotta di vita morale e onesta, ma in realtà sembra uno show trash, che proprio in virtù delle sue pessime qualità intrattiene goliardicamente il pubblico per ore, o per giorni, ed è impossibile da non apprezzare. Se può tranquillizzarvi, sappiate che c’è sempre qualche utente che compensa le vostre mancanze: dopo pochi minuti pubblicherà qualche perla di saggezza riguardo il quieto vivere, le norme di comportamento, e svariati altri consigli non richiesti. Potete continuare a dormire sogni tranquilli, le persone che scandagliano la vostra anima al posto vostro le trovate a ogni incrocio. E lo fanno gratis!

Tornando all’argomento “discussioni in rete”, nel flamele persone si prendono davvero sul serio, e la tattica maggiormente utilizzata è quella di accattivarsi le simpatie del pubblico e del commentarium (l’unità di misura è il like: se non vieni “mipiacciato” non sei nessuno), la stessa demagogia che viene applicata ai discorsi politici, per intenderci. Esiste un elemento perturbante e un elemento perturbato, e la dialettica tra gli avversari ha luogo nella piazza del mercato di facebook riguardo il New Adult, una denominazione apparsa in Italia con la pubblicazione per Garzanti di Uno splendido disastro.I protagonisti dello scontro sono due blogger, entrambi depositari di verità in opposizione e trincerati nelle proprie posizioni. È chiaro quindi che di verità assolute non si possa parlare né per uno, né per l’altro, giusto?

Esiste una tendenza deleteria, nell’uomo: parlare senza possedere gli strumenti e le conoscenze per farlo; il problema però è alla radice, ovvero qualcuno ha sfortunatamente dotato tutti gli esseri umani di dita e di labbra con cui rispettivamente scrivere e parlare. E perdonate questo sfoggio anti-democratico, anche io sono vittima consapevole di tale, ignobile deriva. Nondimeno, l’avviso ai naviganti da parte della scrivente è chiaro: scrivo per divertire, aggiungendo tra tante frasi inutili qualche semino da cogliere riguardo all’argomento in esame.

Dopo il flame di ieri, e le relative castronerie che ne sono emerse, ho fatto una chiacchierata con un amico, che non so se vuole essere nominato in tale contesto e associato alla discussione (e che ringrazio!). Ne sono emerse alcune considerazioni interessanti sul New Adult. Partiamo intanto dalla definizione. Che cos’è il New Adult? Secondo Wikipedia, la denominazione New Adultè apparsa per la prima volta nel 2009 grazie alla St. Martin’s Press, che ha indetto un contest (dal 9 Novembre al 20 Novembre). I redattori e gli editor statunitensi, però, hanno dichiarato che già da anni, nel settore, si usava la stessa terminologia. Il New Adult si configura semplicemente come una categoria di marketing, non un genere o un contenitore. Il denominatore comune dei romanzi New Adultè l’età dei protagonisti, che va dai 18 ai 25 anni, mentre il pubblico di riferimento, sebbene idealmente dovrebbe comprendere i lettori della fascia indicata, è abbastanza eterogeneo (adolescenti, post-adolescenti e adulti indiscriminatamente).

Cosa hanno notato gli editori furboni? Che i romanzi young adult romance (che non sono certo la novità del momento), quelli spiccatamente romantici – eredi della tradizione twilightiana – nei quali al massimo i protagonisti nell’epilogo si danno un casto bacino, non vendevano, non interessavano abbastanza il pubblico. Gli stessi giovani lettori della generazione Twilight sono cresciuti. Inoltre hanno notato l’interesse pruriginoso degli adolescenti americani verso storie hot con protagonisti i loro compagni più grandi. Questa, in estrema sintesi, la nascita del New Adult, che scaturisce da un cambiamento delle abitudini di lettura del pubblico. Lo spiega bene Merrilee Heifetz, agente per Writers House: “We had this huge book in the YA market, and now we don’t want to lose those readers. For a teen who was a voracious YA reader the new adult tag offers a way to say, here, these books are for you.” La categoria New Adult, inoltre, serve a identificare questi romanzi con contenuti sessuali espliciti. “You never want to go to stores and promise them something in YA, meaning it doesn’t have explicit sex, and have them get something they are not expecting” spiega Tara Parsons, editor per Harlequin. La tendenza, poi, a inserire altri romanzi (anche di genere fantasy, distopico, ect) sotto l’etichetta New Adult si chiama repackaging.

Compresa la definizione di New Adult, parto di quel signore oscuro che è il marketing il quale ha numerosissimi adepti tra gli editori, parliamo del fenomeno che si è recentemente scatenato anche in Italia, come se mancassero i motivi per cui lamentarsi. Il New Adult ha festeggiato (io meno) il suo esordio italiano con Uno splendido disastro di Jamie McGuire, il cui protagonista Travis ha fatto capitolare tantissime lettrici, anche se alcune – tra cui la sottoscritta – non sono riuscite a raggiungere l’intima e romantica essenza di questo personaggio badass e tatuato. I responsi, tuttavia, nonostante una frangia dissidente, sono stati largamente favorevoli, tant’è che il romanzo è riuscito a conquistare gli strati bassi della classifica di vendite. È seguito l’effetto domino: Leggereditore, Fabbri, Newton, Mondadori, Rizzoli hanno cominciato a sfornare romanzi simili, eredi della “foga da pubblicazione” degli editori statunitensi che sfornano New Adult come se fossero pagnotte. Non ho ancora letto tutte le pubblicazioni arrivate in Italia, ho avuto l’occasione di leggerne integralmente solo tre, ma per il prossimo mese spero di potervi dare una panoramica più ampia della mia opinione sulle ultime nate, tra cui anche Non lasciarmi andare di Jessica Sorensen – pessima la scelta del titolo quasi uguale a quello del romanzo di Kazuo Ishiguro –, anch’esso giunto alla vetta della classifica nella scorsa settimana. Ormai la Newton ha colonizzato stabilmente la classifica.

Il successo del New Adult non deve però stupire. I romanzi d’amore sono come un capo vintage, non passano mai di moda e le lettrici appassionate non mancano di certo, nemmeno in tempi di magra. Gli ingredienti dell’interesse suscitato da queste pubblicazioni sono semplici: attrazione, sesso, ostacolo, ancora sesso, amore, happy end. Il canovaccio è il medesimo del romance classico da edicola, che annovera autrici certamente migliori di quelle che abbiamo conosciuto con il New Adult. Alla struttura basilare, poi, si possono aggiungere l’ambientazione, l’intreccio, i personaggi, le tematiche che si preferiscono. Come pure per l’inflazionata discussione sul romance che ha bisogno di dignità, non comprendo l’esigenza di difendere il New Adult dalle osservazioni sulla bassa qualità del prodotto. Il New Adult, come ho riportato all’inizio dell’articolo, è stata un’invenzione del marketing, una trovata commerciale degli editori per continuare a vendere. La definizione stessa di romanzo commerciale ci impedisce, quindi, di credere davvero che il New Adult sia la nuova frontiera della qualità di romanzi per ragazzi, adolescenti, “nuovi adulti”. I romanzi per adolescenti o post-adolescenti davvero meritevoli sono altri. Nulla toglie che alcune di queste pubblicazioni possano risultare gradevoli e/o ben scritte. Ogni lettore è libero di leggere ciò che preferisce (è uno dei suoi diritti fondamentali) – io stessa sono una paladina della letteratura trash, nonché avida lettrice di romance –, ma deve tenere sempre a mente la collocazione di ciò che legge. Non si possono rivendicare qualità aleatorie, ma bisogna anche saper accettare che alcune delle letture che si fanno sono nate esplicitamente come intrattenimento, buono o cattivo che sia.

Articolo incriminato di Leo del blog Sangue d'Inchiostro: QUI

Articolo di risposta al flame di From a Book Lover: QUI

Recensione "Non è come pensi" di Sophie Hannah

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 Autore: Sophie Hannah
Titolo: Non è come pensi
Titolo originale: Lasting Damage (pubblicato in America col titolo The Other Woman's House)
Traduzione di Serena Lauzi
Casa Editrice: Garzanti
Pagine: 434
Prezzo: € 18,80
Data di pubblicazione: 28 febbraio 2013
Trama: Lo schermo del computer illumina di luce fioca la stanza buia. Connie Boskwell è di nuovo seduta alla scrivania. Sta controllando per l'ennesima volta la pagina web di un sito di annunci immobiliari. La casa al numero 11 di Bentley Crove è in vendita ed è tutto il giorno che Connie non fa altro che pensarci, è diventata la sua ossessione. Ha aspettato che fosse notte e che Kit, suo marito, dormisse per tornare a guardare l'appartamento che le piace così tanto. Ma quando clicca sul tour virtuale della casa le si apre davanti una scena da incubo. Nel salotto c'è una donna stesa a terra in un lago di sangue, morta. Connie è presa dal panico, corre a svegliare Kit. Ma quando anche lui arriva di fronte allo schermo, la donna non c'è più. Solo la moquette immacolata e le pareti appena imbiancate. Kit non crede a quello che Connie continua a ripetere, non c'è e non c'è mai stato nessun cadavere. Che sua moglie sia diventata pazza? Ma Connie non si lascia scoraggiare. Telefona a una sua vecchia conoscenza, l'ispettore Simon Waterhouse, appena tornato dal viaggio di nozze. Anche Simon ritiene che si tratti di una storia inverosimile e sospetta che Connie possa essere psicologicamente instabile. Ma quando un'altra donna si presenta in commissariato affermando di aver visto la stessa scena alla medesima ora, Simon decide di occuparsi del caso. Connie non ha nessuna prova, ma sa quello che ha visto e ha capito che in qualche angolo di quella stanza si nascondono indizi che le mostreranno tutta la verità.

RECENSIONE
Connie Bowskill, detta Con, in realtà Catriona, attende una sera che il marito Kit dorma per assecondare l'ossessione che la insegue da un po' di tempo, una casa a Cambridge al numero 11 di Bentley Grove. Lei vorrebbe acquistarla, anche se non possono permetterselo neppure attraverso l’idea di un sogno, così si accontenta di guardarne le immagini sul sito dell’agenzia immobiliare che l’ha messa in vendita. E lo fa di nascosto, poiché il marito la ritiene un'idea sconsiderata. Questo noi lettori sappiamo, questo capiamo.

Prima di spegnere il pc, dopo aver visitato tutte le stanze, Con decide di cliccare su “tour virtuale”. Segue la telecamera che inquadra ogni punto della casa, ma improvvisamente soffoca un urlo: una donna è riversa nel proprio sangue sulla moquette del salone, uccisa, con ogni evidenza, morta. Lì, sul monitor del suo computer. Il fatto è che, quando va a chiamare Kit per trascinarlo via dal sonno per fargli vedere quella scena sconcertante, ecco… la donna non c’è più. Motivo in più perché suo marito creda, come sembra faccia ormai da qualche tempo, che lei è stressata, molto stressata, sull’orlo di una crisi di nervi. E ovviamente segue anche la predica sul fatto che lei sia andata ancora una volta a veder quella casa, che tanto non possono comprare. Che ne sia ossessionata? E per quale motivo? Con è davvero ossessionata da quell'abitazione, lo sapremo dopo qualche pagina.

Dopo che, sicura come è di quello che ha visto, si reca prima dalla sua omeopata/psicologa e poi alla polizia, dove però Simon Waterhouse, che la conosce bene, non c’è, si trova in viaggio di nozze. Con descrive allora quanto è accaduto a un suo collega, il quale mantiene una correttezza formale davanti a ciò che con ogni evidenza considera un’allucinazione. Come è possibile che sia vero ciò che ha visto, se suo marito dopo qualche minuto non ha trovato la stessa donna riversa nel sangue, ma un pavimento immacolato e vuoto?

Il fatto è che lei ne è sicura, il fatto è che lei ha trovato sul navigatore di Kit, alla voce “casa”, l’indirizzo “11 Bentley Grove”. Da quel momento, Con si è convinta che suo marito abbia una doppia vita, e un'altra donna ovviamente. Ogni venerdì si reca a Cambridge ad attendere davanti a quell’abitazione che il marito vi entri o ne esca. Ecco il motivo di quella ossessione.

Cambridge era stato il desiderio di entrambi qualche anno prima, quando avevano deciso di trasferirvici, se non fosse accaduto che Connie fosse presa da crisi di panico man mano che la possibilità si avvicinava alla realtà, fino a quando Kit, temendo di fare danno alla donna che tanto amava, aveva deciso di sospendere la ricerca e di comprare e ristrutturare meravigliosamente il loro Melrose Cottage, in quel posticino così tranquillo e provinciale che era Little Holling a Silsford. Qui vivono anche i genitori di Connie, rovina e angoscia di lei, di sua sorella, di Kit. Cambridge è la città dove Kit aveva studiato e vissuto in gioventù, amata ma, sembra, tranquillamente lasciata per tornare nei luoghi aviti dopo la laurea.

Connie ha delle allucinazioni: suo marito, subito dopo di lei, non ha visto la donna morta, e poi… come si potrebbe giustificare che un’agenzia immobiliare, il cui scopo è vendere le case, inserisca una scena di quel tipo che allontanerebbe qualsiasi acquirente? Tutto è contro di lei. Nessuno potrebbe mai crederle. Lei soffre di crisi di panico, è stressata, ecco la spiegazione. In più ha una fissazione insana per quella casa, insana sì, perché poi ne ha parlato con suo marito e lui giura di non aver inserito quell’indirizzo nel suo navigatore… forse qualche dipendente della loro ditta, chissà! Ma lui no, perché avrebbe dovuto?

Il mistero si infittisce, tutto rema contro Connie. Simon Waterhouse non viene scomodato dal suo viaggio di nozze per le crisi isteriche di una donna in preda al in panico. Almeno fino a quando non si presenta alla polizia un’altra donna che dice di aver visto la medesima scena alla medesima ora. A questo punto bisogna che Simon, il commissario dalla brillante intelligenza e dall’intuito eccezionale che ha risolto altri casi proposti dalla scrittrice nei libri precedenti, si interessi del caso, deve tornare o almeno essere informato di quanto sta accadendo in sua assenza. Simon Waterhouse torna dal viaggio di nozze, facendo vincere a sua moglie Charlie, sergente di polizia, la scommessa che sarebbe andata così.

L’indagine ci porta a seguire le sorti della casa al numero 11 di Bentley Grove, il suo passaggio da un proprietario all’altro, da un agente immobiliare all’altro. L’ultima proprietaria, quella che l’ha messa in vendita, non vuole neppure viverci finché è ancora sua, preferisce vivere in un hotel. Cosa nasconde quella casa? Connie ha davvero delle allucinazioni, come ci sembra di credere ancora dopo che la sua versione trova conferma in quella di un’altra persona? Lei lotta contro l’idea che si vuole far avere di lei, ma chi vuole far credere questo? Qualcuno che vuole condurla alla follia, è evidente. Ci va molto vicina, ma l’intelligenza di una paranoica è di gran lunga superiore alla norma, perciò, infine, giunge alla verità, forse quando è troppo tardi. Forse la verità avrà per lei un costo troppo alto. 

Sophie Hannah ci propone per Garzanti uno dei suoi thriller psicologici, genere in cui il mondo inglese sembra detenere la palma in questi ultimi anni. Un libro dalla trama complessa che tiene in bilico il lettore per molte pagine, anzi per tutte le pagine.

La storia è condotta con un linguaggio accattivante che tiene desta la curiosità del lettore, il quale si ritrova a credere che la protagonista soffra di ossessioni compulsive, ma due pagine dopo pensa, invece, che qualcun altro lo voglia far credere, che lei, la protagonista, è in realtà la vittima di un inganno magistralmente guidato dallo scopo di farla impazzire. La scrittrice è maestra in questo, nel confondere le tracce, gli indizi, nel passare da una certezza al suo opposto, tenendo così sempre all’erta la curiosità e la suspense.

Il pregio di questo libro è nel tono ironico che a tratti fa sembrare di avere a che fare con una commedia, facendoci dimenticare che stiamo leggendo un thriller.I personaggi sono caratterizzati nelle loro peculiari caratteristiche negative con un sarcasmo sferzante che non risparmia nessuno. La stessa protagonista, che è la voce narrante, non si risparmia, utilizzando per se stessa la medesima feroce ironia concessa a tutti gli altri. E vi assicuro che questo humour tipicamente inglese è davvero esilarante in più momenti della narrazione.

Altro pregio è l’aver descritto, attraverso questo linguaggio ironico e corrosivo, e perciò molto più efficace nel messaggio, un caso e una situazione in cui una donna è fatta oggetto di accuse di malattia mentale, di ossessività compulsiva, e dell'inganno messo in atto affinché queste diagnosi si rivelino giuste.

È il segno di riconoscimento di questa autrice, quello che troviamo anche negli altri suoi romanzi, esasperare delle attitudini comuni e quotidiane trasferendole in situazioni criminose dove possono trovar spiegazione, senza però far perdere mai la consapevolezza che sono comuni, che avere la sensazione di impazzire, perché qualcuno per i più svariati motivi lo vuole, è nelle nostre quotidiane esperienze più di quanto possiamo percepire con la ragione. L’arte, la scrittura, d’altronde fa questo, ci allontana dalla percezione razionale, ponendoci su un livello creativo e immaginifico dove “tutto può succedere”, senza che nulla entri in conflitto con le nostre certezze e le nostre difese.

Non è come pensiè un libro che si legge con il piacere che ogni libro dovrebbe dare, quello di non smettere fino all’ultima pagina, e dà questo piacere per il ritmo della scrittura, per i colpi di scena forniti non tanto dalla trama quanto dalle parole utilizzate. Un piacere che ci fa sorvolare, forse, sul fatto che la trama appare tanto complessa da sembrare ingarbugliata e che in diversi momenti del racconto ci sembra che i conti non tornino, che bisogna faticare a volte a mettere insieme indizi e smascheramenti. Sul fatto che in in alcuni momenti anche il lettore può sentirsi sul punto di impazzire per tenere insieme tutte le piste.


L'AUTRICE
Sophie Hannah vive a Cambridge con il marito e i due figli. È poetessa e autrice di racconti che le hanno valso premi prestigiosi, tra cui il Daphne Du Maurier Festival Short Story Competition. I suoi romanzi, editi in sedici paesi, sono sempre al vertice delle classifiche a poche settimane dall'uscita. Con Garzanti ha pubblicato anche Non è mia figlia, Non è lui, Non ti credo, Non è un gioco e La culla buia.






Recensione “La stella nera di New York” di Libba Bray

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Cari lettori,
oggi vi presentiamo il primo romanzo della quadrilogia di The Diviners di Libba Bray, La stella nera di New York, pubblicato da Fazi a ottobre 2012, un romanzo per Young Adult (è pubblicato nella collana Lain) che anche i lettori adulti troveranno molto intrigante, intelligente e ben costruito.

Autore: Libba Bray
Titolo: La stella nera di New York
Serie: The Diviners #1
Titolo originale: The Diviners
Traduzione di Donatella Rizzati
Casa Editrice: Fazi
Collana: Lain
Pagine: 585
Prezzo: € 14,90 rilegato € 6,99 e-book
Data pubblicazione: 11 ottobre 2012
Trama: New York City, 1926. I vetri dei grattacieli risplendono dei bagliori di mille feste animate da balli sfrenati a ritmo di charleston e dal tintinnio delle perle sui vestiti luccicanti. L'alcol scorre a fiumi nonostante i divieti e, a giudicare dall'effervescenza di Manhattan, il mondo sembra destinato a un futuro radioso. È qui che in seguito all'ennesima eccentricità viene spedita dai genitori l'irriverente Evie O'Neill, una ragazza dell'Ohio che non aspetta altro che tuffarsi tra le infinite possibilità offerte dalla metropoli. A ospitarla è lo zio Will, un professore, parente dei Fitzgerald, che dirige il Museo Americano del Folklore, delle Superstizioni e dell'Occulto, detto anche Museo del Brivido: un luogo magico dal fascino decadente, che custodisce nelle sue teche e tra i suoi bui corridoi le tracce del retroterra misterioso dell'America. Ma quando lo sfolgorio della città viene oscurato da una serie di delitti a sfondo esoterico, New York precipita in un vortice di paura ed Evie, che da subito assiste lo zio nella consulenza alla polizia, è chiamata a collaborare alle indagini, anche per quel suo dono di vedere il passato delle persone toccando un oggetto a loro appartenuto. Muovendosi tra fumosi jazz club e bassifondi urbani, scintillanti negozi e sale spettrali, la ragazza s'inoltrerà insieme a molti compagni di strada in un gorgo di eventi evocato dal passato, e che nel passato dovrà essere ricacciato, pena il sopravvento di un antico male oscuro.


RECENSIONE
La ricostruzione dell'America dei ruggenti anni '20 di Libba Bray è precisa e dettagliata. Ci troviamo in un Paese che si sta riprendendo da una guerra con migliaia di morti. Una guerra combattuta al di là dell'Oceano, da cui tanti giovani non sono più tornati. Una guerra che ha fatto cambiare la concezione della vita ai giovani che sono rimasti, in particolare quelli che hanno perso i propri cari al fronte. Davanti alla morte, quei ragazzi erano tutti uguali; non importava il loro ceto sociale o il colore della loro pelle. Così sfidare le leggi del proibizionismo, cercare il divertimento sfrenato nelle feste clandestine, vivere – a soli diciassette anni – come se non ci fosse un domani, è un gesto di ribellione.

Evie O'Neill
Ecco perché la ‘maschietta’ Evie O'Neill cerca di afferrare dalla vita tutto quel che essa le offre. Lei ha subìto nella Grande Guerra la perdita dell'adorato fratello James, restando per sempre nella sua ombra agli occhi della madre. La vita in Ohio le sta stretta, anche perché Evie ha scoperto di avere delle doti paranormali, che le consentono di vedere, attraverso un oggetto, nel passato di chi lo ha posseduto. È una divinatrice e questo suo potere la rende diversa e scomoda, suscita diffidenza e, perciò, deve essere tenuto nascosto. Evie verrà mandata a New York dallo zio Will, direttore del Museo Americano del Folklore, delle Superstizioni e dell'Occulto, detto anche Museo del Brivido, proprio in un periodo di grave crisi: in città, infatti, un omicida compie delitti efferati seguendo un rituale macabro che fa pensare a qualche società occulta. Per questo motivo la polizia chiede la collaborazione proprio dello zio Will.

Questo romanzo pullula di personaggi positivi e negativi, realistici e soprannaturali. La Bray gestisce questa piccola folla con maestria, facendoci analizzare da vicino ciascuno di loro, dipingendolo in ogni minimo dettaglio, grazie a piccole sotto-trame avvincenti al pari della trama principale. Sono gli anni in cui si 'gioca' con le tavole ouija, con le sedute spiritiche, ma questi omicidi fanno capire che c'è ben poco da giocare. Eppure Evie, con il coraggio dell'incoscienza dei suoi diciassette anni, vive il pericolo quasi come un gioco.

Jerico Jones
La Bray affronta l'argomento della diversità, in molte sue forme. I divinatori sono diversi, speciali, ma devono tenere nascoste le loro doti; Mabel è diversa nell'essere se stessa e nel non volersi uniformare alle altre ragazze della sua età; Henry nasconde la sua omosessualità. A questo proposito è interessantissima la sotto-trama di Jerico Jones, in cui ho intravisto una sorta di retelling moderno di Frankenstein di Mary Shelley con diversi sviluppi, perché il mondo è cambiato, e certamente non tutti, ma persone come Will e Evie sono pronte ad accettare un'aberrazione della natura, o meglio, dell'uomo, e a rispettare i suoi sentimenti.

Gli omicidi fanno pensare a sette religiose intolleranti, al Ku Klux Klan, a coloro che difendono una razza pura, come il Movimento eugenetico, davvero esistito in America dal 1907 al vicino 1973. In realtà John "il Malvagio" Hobbes si rivelerà essere qualcosa di differente, lontano da queste entità reali, eppure così vicino, predicando un fanatismo religioso che condanna gli eccessi e i vizi, pur servendosene per i suoi fini, perché si sente al di sopra degli altri nel compimento della sua "missione".

John Hobbes avrà la sua fine, o forse no, non ve lo rivelo per non incorrere in spoiler. Ma pensiamo che in quegli stessi anni in Europa si stava facendo strada verso il potere un uomo ben più reale e temibile di John Hobbes, un uomo che sterminò in modo altrettanto crudele milioni di esseri umani, un uomo che come John Hobbes si sentiva investito di una "missione" e non si faceva scrupolo dei mezzi adoperati.

Memphis Campbell
La stella nera di New York si conclude dopo oltre 500 pagine che si leggono tutte d'un fiato. Pur non essendo un autoconclusivo, la Bray non ha lasciato nulla – o quasi – in sospeso. Sarà quindi una piacevole sorpresa scoprire cosa ci riserverà il secondo romanzo della serie. Sarà ancora Evie la protagonista? Risolverà un altro caso poliziesco nel campo dell'occulto grazie alle sue speciali doti, o sarà una sorta di spin-off in cui un altro divinatore assumerà il ruolo principale? Io, per parte mia, non vedo l'ora di immergermi nella prosa fluida e incisiva di Libba Bray.

L'AUTRICE
Libbra Bray (11 marzo 1964) è una scrittrice statunitense, autrice della trilogia di Gemma Doyle (Una grande e terribile bellezza– 2003, Angeli Ribelli– 2005 e La rivincita di Gemma– 2007), tutti e tre pubblicati in Italia da Elliot Edizioni. Attualmente vive a New York con il marito. La sua storia fu segnata dal divorzio dei genitori e da un terribile incidente che da quando aveva 18 anni l'ha costretta a continui interventi chirurgici. La stella nera di New Yorkè il primo romanzo della quadrilogia di The DivinersSito Autrice

Le immagini dei personaggi sono tratte dal sito del libro 

Recensione "La maledizione di Ondine" di Valentina Barbieri

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Autore: Valentina Barbieri
Titolo: La maledizione di Ondine
Casa Editrice: Valentina Barbieri Youcanprint Self-Publishing
Serie: I Guardiani dei portali
Pagine: 282
Prezzo brossura: € 10,90
Prezzo e book: € 1,99
Data di uscita: 18 marzo 2013
Trama: Ondine è una giovane sensitiva in grado di percepire una dimensione in cui gli spiriti vagano, anelando il modo per tornare nel mondo dei vivi.
Cercando una spiegazione razionale e scientifica, Ondine, insieme all’amico Francesco, indaga su eventi paranormali. La verità inizia a venire allo scoperto quando a Londra incontra Benjamin Law, un giovane e affascinante prete in grado di passare dall’Altra Parte. Grazie a lui, Ondine viene a conoscenza di oggetti posseduti e assiste a un terribile esorcismo. Le informazioni su un antico Ordine dei Guardiani portano Ondine e Benjamin a Praga, alla disperata ricerca di Lysandra Novacek, l’ultima discendente della famiglia a capo dell’Ordine. Tra spiriti e luoghi antichi, scontri e battaglie epiche, Ondine viaggerà per l’Europa, per scoprire se è l'amore o la vendetta a vincere la morte.
“Quando attraversi le porte che separano il mondo dei vivi da quello dei morti, devi essere sicura di poter tornare indietro…”


RECENSIONE
«Ora, se mi permetti, ti rivelo come stanno le cose. Non esiste nessun dio. Questo universo è formato solo da tre delle undici dimensioni esistenti. Non c’è nessuna anima da salvare. La nostra coscienza si trasforma in altro, così come la vita che conosciamo noi. L’Altra Parte è una dimensione di passaggio, dove gli Inconsci, ancorati a questa vita, si aggrappano per non giungere alla dimensione che spetta loro.»
Questa frase, tratta da questo agile romanzo di Valentina Barbieri, dice parecchio della protagonista Ondine e del sistema che l'autrice riesce a costruire nel primo tomo della trilogia I guardiani dei portali, di cui si attendono i due volumi restanti. Quel “ti rivelo”, rivolto a Benjamin Law, l'altro sensitivo che come lei comunica con i trapassati, sta a mostrare quanto Ondine sia volitiva, non poco saccente, istintiva nelle sue reazioni, oltre che arroccata sulle sue posizioni atee e scientiste. Il fatto che il coprotagonista sia il cristiano Ben aggiunge sapore e contenuto alla storia. Che lei rimanga delle sue idee o che nel resto della trilogia si apra al dialogo con la fede di Ben, nello scenario complesso di un aldilà che rifletta le credenze generalmente condivise, può fare la differenza quanto allo spessore della narrazione. Nel primo caso la saccenza sarà un difetto, e non solo della protagonista, ma della visione generale, nel secondo il confronto potrà essere fecondo e aggiungerà sapore e consistenza al tutto, elevando il livello dei romanzi, da semplice storia paranormal a qualcosa di più legato a un sistema di pensiero che abbia una base culturale. 

Di fatto il mondo creato dall'autrice è piuttosto interessante; tolta l'impressione di assistere a trasmissioni tipo Misteri o Voyager, il mondo proposto dal romanzo è complesso e ben costruito. I mattoni che lo compongono sono variegati e raccogliticci di tutto ciò che è esoterico e new age, dalla metafonia all'aura, alle anime (ma non chiamiamole così, che a Ondine fa impressione) che devono essere aiutate ad oltrepassare la soglia, come in serie televisive tipo Ghost Whisperer o Medium. Eppure trovano luogo anche la fisica e la scienza: è chiaro che l'autrice si è documentata a dovere. Piace anche lo spazio europeo della storia con Londra, Praga e la Romania a fare da sfondi all'azione. Gli Indigo Kids, i Cavalieri dell'Apocalisse. Valentina Barbieri usa tutto in modo intelligente.

Ondine non è una protagonista banale, il suo carattere particolare la salva dall'essere piatta, e i comprimari funzionano, come il migliore amico, il giovane prete e gli altri. Di fatto si continua a leggere con speditezza perché si vuole sapere che succederà nel procedere della narrazione, dunque l'autrice sostiene bene la tensione.

Lo stile forse non ha un’impronta molto personale, di buono c'è che è semplice e scorrevole, forse però risulta un po' piatto, ancora poco legato a una precisa identità autoriale. In un esordio ci può stare e si può ben sperare che migliori in seguito.

Un altro difetto rilevabile lo si incontra, al livello della trama e della caratterizzazione, dopo l'incontro con la carismatica Lysandra. Dovrebbe essere carismatica, la si vuole tale, ma la sua leadership, come anche tutti gli eventi collegati all'acme finale in cui avviene lo scontro fra bene e male, per intenderci, sembrano poco curati, troppo affrettati rispetto agli avvenimenti iniziali. Insomma quando gli eroi affrontano il cimento conclusivo vien da pensare che qualcosa debba ancora succedere perchési ha la sensazione che manchi qualcosa di fondamentale e invece no: il libro è alla fine. Probabilmente ciò è dovuto alla natura di trilogia della narrazione: la storia narrata ne La maledizione di Ondine è solo l'inizio e il clou deve ancora venire, eppure è un peccato, sarebbe stato bello ottenere qualcosa di più, perché le premesse erano buone. Ma, insomma, attendiamo il seguito e già quest’attesa dice bene di questo romanzo e della sua autrice.

L'AUTRICE
Valentina Barbieri ha ventiquattro anni e studia all'Università degli Studi di Milano. Appassionata di libri, soprattutto di fantascienza e fantasy, scrive per necessità, poiché i suoi personaggi – ha affermato in un’intervista – premono nella sua mente. Ha pubblicato un racconto, Arèl, nell’Almanacco Fantasy di Lettere Animate. La maledizione di Ondineè il suo primo romanzo, auto pubblicato, afferma, per poter avere un contatto più diretto con i suoi lettori. Il seguito della trilogia I guardiani dei portali potrebbe vedere la luce già quest’autunno.

Home video "Jesus Christ Superstar" recensione

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Titolo originale: Jesus Christ Superstar
Paese di produzione: USA
Anno: 1973
Durata: 108 min
Genere: drammatico, biblico, musical
Regia: Norman Jewison
Soggetto: Tim Rice (musical)
Sceneggiatura: Norman Jewison, Melvyn Bragg
Uscita Blu-ray Universal: 22 maggio 2013
Cast: Ted Neeley, Carl Anderson, Yvonne Elliman, Barry Dennen, Bob Bingham.
Trama: A 40 anni di distanza dall'uscita cinematografica, finalmente in Alta Definizione la trasposizione sul grande schermo del famoso Musical di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber. Gli ultime sette giorni della vita di Gesù rappresentati come un Musical da un gruppo di Hippie e narrati sotto l'originale prospettiva di Giuda.

RECENSIONE
A quarant'anni dall'esordio cinematografico arriva finalmente la versione home video, restaurata e ad alta definizione. A partire dal 22 maggio, infatti, la Universal Pictures ha distribuito la versione Blu-ray di Jesus Christ Superstar, indimenticabile musical creato da Tim Rice e Andrew Lloyd Webber.

Dopo quattro decadi di applausi e ovazioni è ormai difficile dire qualcosa di originale su Jesus Christ Superstar, musical capace di mescolare religione e rock in un connubio drammatico e spettacolareDal teatro, al cinema, per finire nelle nostre case, in un'acclamazione generale che va oltre le generazioni e le epoche.

La versione blu-ray è caratterizzata da una buona qualità video, frutto di una restaurazione certosina, e da un'ottima qualità audio, disponibile in DTS-HD Master Audio Mono 2.0 e Inglese Digital Surround 2.0. Nonostante la mancanza del 5.1, il prodotto garantisce una nitidezza sonora rimarchevole che permette di alzare il volume senza rischiare distorsioni (ma attenti a non disturbare i vicini!)

Pochi i contenuti speciali, che si limitano all'intervista esclusiva al maestro Tim Rice, autore del musical, e al commento al film fornito dal regista Norman Jewison e dell'attore Ted Neely (che interpreta Gesù Cristo).

Un buon prodotto commerciale per un film che non può mancare nella vostra videoteca personale.

INFORMAZIONI TECNICHE DEL BLU-RAY

CONTENUTI AUDIO: Inglese DTS-HD Master Audio Mono 2.0; Inglese Digital Surround 2.0
SOTTOTITOLI: Inglese n/u, Francese, Italiano, Tedesco, Spagnolo, Giapponese, Danese, Olandese, Finlandese, Islandese, Norvegese, Portoghese, Svedese, Arabo, Hindi.
CONTENUTI EXTRA: Intervista esclusiva al maestro Tim Rice; Galleria fotografica; Trailer; commento al film del regista Norman Jewison e dell'attore Ted Neeley.

Recensione “Io, laureata, motivata, sfruttata… in stage!” di Yatuu

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Che la “maloccupazione” giovanile sia la piaga del nostro tempo è un dato di fatto triste e inesorabile; lo è in Italia e, apprendiamo da questa simpatica BD, a quanto pare lo è anche in Francia. Ce lo racconta con i suoi disegni in stile manga la ventiquattrenne Yatuu (al secolo Cyndi Barbero), fumettista, illustratrice e grafica sopravvissuta a cinque anni di passaggi da uno stage sottopagato a un altro, nell’eterno miraggio di un’irraggiungibile assunzione. E prima di passare alla carta stampata (in Francia la pubblica 12 bis, in Italia Hop Edizioni) ha raccontato la sua esperienza nel suo seguitissimo blog.

Autore: Yatuu (Cyndi Barbero)
Titolo: “Io, laureata, motivata, sfruttata… in stage!”
Titolo originale: “Moi, 20 ans, diplômée, motivée... exploitée!”
Editore: Hop Edizioni
Collana: La vie en rose
Pagine: 96
Prezzo: € 11,00
Trama: Un fenomeno – quello dello stage – che ha cambiato per sempre il modo di intendere il lavoro è raccontato ora in un libro illustrato. Yatuu ha deciso di rendere pubbliche le sue tragicomiche esperienze di lavoro parasubordinato in un divertente e acido fumetto.


 RECENSIONE
I lettori italiani non possono saperlo, ma il titolo originale di questo fumetto (“Moi, 20 ans, diplômée, motivée... exploitée!”) occhieggia con un’ironia nera e pervasiva alla traduzione francese di un famosissimo libro di denuncia: si tratta di “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, che in francese è “Moi, Christiane F., 13 ans, droguée, prostituée.”
 
L’intento dell’autrice è chiaramente quello di qualificare il lavoro subalterno (nella sua perpetua ripetibilità) come una piaga sociale che dà dipendenza, porta progressivamente allo straniamento fino a intaccare pesantemente l’autostima e la dignità personale dell’eterna stagista, che è mostrata nell’atto disumano di lavorare fino a notte fonda, anche nei weekend, per una paga da fame; tutto per poi venire, neanche troppo gentilmente, messa alla porta sei mesi dopo. 

Yatuu ci racconta questo mondo da incubo con grande ironia mista a sarcasmo, con disegni di forte impatto (nella loro semplicità) e solo parzialmente ispirati ai manga giapponesi: il mondo che descrive è una via di mezzo tra il reale e il surreale, tra la linearità del fumetto e la giocosità del libro-game (in alcuni punti il fumetto si “biforca”, mettendo una palla metaforica nelle mani del lettore). 

Un libro che in Francia sarà sembrato lo specchio necessario di un malcostume disumano e che, duole dirlo, letto in Italia è inevitabilmente percepito come una storia, se non all’acqua di rose, comunque esemplificativa di una situazione non così drammatica, viste le condizioni (di molto peggiori) in cui versano i laureati in materie “creative” nel nostro paese: giusto per farvi un esempio, chi vi scrive ha 26 anni, è in possesso di una laurea magistrale, ha vinto due premi di studio, ha conseguito il titolo con il massimo dei voti un anno e mezzo fa e, da allora, a tutt’oggi non ha ancora mai svolto un lavoro (o uno stage) retribuito. Neanche minimamente. Considerazioni alla luce delle quali uno stipendio minimo sicuro (come quello che lo stato garantisce agli stagisti in Francia) visto in Italia sembra un miraggio; e la prospettiva di passare cinque anni a saltellare da uno stage all’altro non è poi così terribile.

Dunque un ottimo lavoro di grafica e ironia, consigliato ai precari e agli amanti dei fumetti, che però è essenziale contestualizzare.

E se ci trasferissimo tutti in blocco in Francia?

Questa è chiaramente una provocazione, ma invito tutti i lettori a cogliere quest’occasione per condividere con noi esperienze di lavoro subalterno, storie di precariato e di malcostumi lavorativi all’italiana. Raccontateci le vostre storie!

L’AUTRICE
Cyndi Barbero, che si firma con lo pseudonimo Yatuu in onore dell'amatissimo Giappone, ha trasposto in fumetto il racconto delle sue peripezie lavorative – parasubordinate, potremmo dire –  raccolte nel suo blog ancor prima di essere pubblicate.
Scegliendo un'impostazione disegnativa derivata dall'universo dei manga, l'autrice descrive con tratto particolare le speranze, attese, delusioni, frustrazioni e umiliazioni di una generazione costretta a lavorare senza garanzie, senza meritocrazia, senza motivazione.

Recensione: “Io che amo solo te” di Luca Bianchini

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Conosco Luca Bianchini (anche personalmente) da quando ero un’adolescente brufolosa e lui un copywriter trentenne che aveva pubblicato un romanzo carino per Mondadori (Instant Love): ci siamo incontrati per caso a un concorso letterario sponsorizzato dai mezzi pubblici torinesi, in cui lui faceva parte della giuria e io dei partecipanti.

Da allora ho seguito la sua parabola creativa: l’ho visto diventare il biografo di Eros Ramazzotti (i proventi di quel libro gli permisero di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente alla scrittura), nonché presentare il programma radiofonico “Colazione da Tiffany” e amministrare un blog molto seguito su Vanity Fair. Ma soprattutto l’ho visto maturare dal punto di vista letterario: il romanzetto disimpegnato sul menage à trois che l’ha lanciato è ormai molto lontano, anche se molte delle sue tematiche d’elezione sono rimaste le stesse.

Io che amo solo te, che prende in prestito il titolo della bellissima canzone di Sergio Endrigo, è il primo romanzo di Bianchini ambientato al sud e precisamente in Puglia, a Polignano a Mare, in una settimana spazzata dal maestrale. Una settimana in cui ha luogo un evento mitico: il matrimonio in pompa magna di due ragazzi i cui genitori si sono amati per tutta la vita, senza mai potersi sposare.

Un libro che unisce una leggerezza propria del sentire “bianchiniano” con una riflessione a tutto tondo sulla natura dell’amore e soprattutto sulla mai scontata dialettica “amore-matrimonio” in un percorso adombrato soltanto dal finale, davvero un po’ troppo consolatorio per un romanzo così deliziosamente chiaroscurato.

Autore: Luca Bianchini
Titolo: Io che amo solo te
Editore: Mondadori
Collana: Scrittori italiani e stranieri
Pagine: 262
Prezzo: 16 euro
Trama: Ninella ha cinquant'anni e un grande amore, don Mimi, con cui non si è potuta sposare. Ma il destino le fa un regalo inaspettato: sua figlia si fidanza proprio con il figlio dell'uomo che ha sempre sognato, e i due ragazzi decidono di convolare a nozze. Il matrimonio di Chiara e Damiano si trasforma così in un vero e proprio evento per Polignano a Mare, paese bianco e arroccato in uno degli angoli più magici della Puglia. Gli occhi dei 287 invitati non saranno però puntati sugli sposi, ma sui loro genitori. Ninella è la sarta più bella del paese, e da quando è rimasta vedova sta sempre in casa a cucire, cucinare e guardare il mare. In realtà è un vulcano solo temporaneamente spento. Don Mimi, dietro i baffi e i silenzi, nasconde l'inquieto desiderio di riavere quella donna solo per sé. A sorvegliare la situazione c'è sua moglie, la futura suocera di Chiara, che a Polignano chiamano la "First Lady". E lei a controllare e a gestire una festa di matrimonio preparata da mesi e che tutti vogliono indimenticabile: dal bouquet "semicascante" della sposa al gran buffet di antipasti, dall'assegnazione dei posti alle bomboniere - passando per l'Ave Maria -, nulla è lasciato al caso. Ma è un attimo e la situazione può precipitare nel caos, grazie a un susseguirsi di colpi di scena e a una serie di personaggi esilaranti.

RECENSIONE
Il torinesissimo Luca Bianchini, l’anno scorso a quest’epoca, è capitato in Puglia per un giro di presentazioni del suo ultimo romanzo e, complice un dolce “rapimento” da parte di una famiglia pugliese, si è trovato a partecipare a 18 matrimoni nel giro di un’estate. Le storie che ha sentito raccontare tra una portata e l’altra sono state l’ispirazione per questo romanzo corale, che ha scritto mentre ancora si trovava nella suggestiva cornice della costa pugliese.

Il risultato è un racconto che prende il lettore in un vortice di preparativi matrimoniali, coinvolgendolo in tutte le piccole e grandi storie di cui sono protagonisti i personaggi di questo romanzo: ci sono Ninella e Don Mimì, con il loro grande amore in sospeso da 30 anni; ci sono Chiara e Damiano, i futuri sposi, che a pochi giorni dalle nozze sembrano davvero lontani anni luce dal “per sempre felici e contenti”; c’è la sorella della sposa, l’adolescente Nunzia detta Nancy, che lotta per perdere chili e verginità, nella speranza di non perdere il titolo di “Pippa Middleton di Polignano”; c’è il fratello dello sposo, il bellissimo Orlando, che arriva alle nozze con una finta fidanzata per nascondere la sua omosessualità; c’è il make-up artist, che si finge gay per trovare ingaggi; c’è la zia Dora, che mangia sushi, va dall’estetista e da quando vive in Veneto chiama i suoi parenti “voi meridionali”; c’è Vito Photographer, che attenta alla virtù della sposa che dovrebbe limitarsi a fotografare sulle scogliere; c’è Matilde, la moglie di Don Mimì, che difende con le unghie e con i denti il suo posto in famiglia e in paese, dove la chiamano “la first lady”, e spadroneggia sui posti a sedere e sull’ampiezza della scollatura della sposa.

Il tutto in un caotico (ma metodico) crescendo, che arriva al culmine di una festa nuziale che fa tanto “Il mio grosso grasso matrimonio greco” con sala ricevimento in stile New Orleans, cantanti neomelodici, trenini, 300 invitati, decine di portate e soprattutto la resa dei conti finali, che vedrà ogni nodo, a modo suo, giungere al pettine.

Luca Bianchini imbastisce un romanzo intrigante obbligando letteralmente il lettore a voltare pagina; ed è bello che ci riesca raccontando un evento topico, qualcosa che al giorno d’oggi non va più di moda come un tempo, né nella realtà né nella fiction.

La luce in cui sono riportati i suoi personaggi pugliesi è sempre in bilico oltre l’ironia, che spesso sfocia nella satira. Tuttavia non sono d’accordo con quelle recensioni che ritengono i protagonisti ridotti a caricature; non c’è alcun dubbio sul fatto che si tratti di personaggi tridimensionali, piuttosto sono forse i sentimenti a risultare, alla fine, più superficiali di quanto le premesse potessero far supporre. Ma sono dell’idea che demitizzare i grandi amori sia, in questo periodo storico, un alto scopo che la letteratura fa bene a prefiggersi.

Nota stonata solo il finale, un po’ troppo lieto e poco in linea con le ambigue premesse: in questo, il precedente “Siamo solo amici” aveva dato il meglio della penna di Bianchini, battendo di qualche misura quest’ultimo. Pollice bene in alto, invece, per la copertina: penso che non ci sia più niente di romanticamente contraddittorio di due peperoncini abbracciati. 

In definitiva un romanzo avvincente, divertente, che sa di mare e di spaghetti allo scoglio, che fa venire voglia di andare in Puglia, di fare festa, e di domandarsi quali siano gli scheletri nell’armadio di ogni festa.

Decisamente consigliato, soprattutto per portare un po’ di spuma di mare nell’estate di chi al mare non ci andrà.


L’AUTORE
Luca Bianchini (Torino, 1970) per Mondadori ha pubblicato i romanzi Instant Love (2003), Ti seguo ogni notte (2004), Se domani farà bel tempo (2007) e Siamo solo amici (2010). Nel 2005 ha scritto la biografia di Eros Ramazzotti Eros - Lo giuroDal 2007 conduce "Colazione da Tiffany" su Radio2. Collabora con Repubblica e Vanity Fair, per cui tiene anche un seguitissimo blog: Pop Up. Ha intervistato gli Abba, "Harry Potter" e Michael Stipe, e ne è molto orgoglioso.

Quando la cover "fa" il genere

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Cari lettori,
Lasciate che vi racconti una storia.
Un paio di mesi fa, la Giunti Y decise di riproporre alcuni dei grandi classici della letteratura in edizioni tarate su un pubblico young. La campagna di marketing partì in bomba: per Cime tempestose si puntò su una cover con una fanciulla sognante e vagamente gothic, per Il ritratto di Dorian Gary si scelse un fotogramma con il protagonista del film del 2009 e così via. Per Cuore di Tenebra, la scelta ricadde su un biondo Adone muscoloso e cosparso d’olio.

La rete, e soprattutto il mondo dei lit blog aggrottò le sopracciglia, urlò un sonoro “WTF?” e dopo una levata di scudi (basti ricordare il post ironico e sferzante di Malitia di Dusty pages in Wonderland e l’articolo di Loredana Lipperini su Repubblica), la Giunti fece una parziale marcia indietro e ripensò la propria strategia. Alcuni di voi avranno già letto di questa vicenda. In verità, la presenza del biondo tartarugato e figo sulla copertina del libro di Conrad era totalmente astrusa e fuori contesto rispetto al romanzo e urlava “sono una cover farlocca per attirare le ragazzine in crisi ormonale e me ne vanto.”

La vicenda delle cover Giunti Y è sintomatica di un atteggiamento generalizzato, ossia che le cover debbano indirizzare in termini di genere le letture dei giovanissimi. Non uso giovanissimi a caso. Fatevi un giro nel reparto ragazzi di una grande libreria di catena: scorgerete Il ritratto di Dorian Gray e I fiori del male (sì, avete letto bene: Baudelaire, che sfoggia una cover decisamente Emo) nello scaffale a fianco di Geronimo Stilton e in pop up educazionali.


Genderizzazioneè un neologismo che sta ad indicare come le copertine vengano preparate per far sì che il lettore o la lettrice sappiano immediatamente che un libro appartiene alla narrativa femminile o maschile. Sin dalla più tenera età, troviamo negli scaffali della letteratura per bambini e ragazzi delle indicazioni sul genere. E se può servire ad aiutare e rafforzare il bambino nel riconoscimento di genere e dell’identità personale nei primissimi anni di vita, non si comprende più che ragione abbia seguire questa strada nel mercato degli young adult e più in generale della narrativa.

Sul punto si potrebbe aprire un dibattito enorme. Spesso le cover sono la dimostrazione di ciò che è contenuto: per cui, una copertina romantica e ammiccante vedrà, nella maggioranza dei casi, una protagonista femminile che, per quanto sia forte e coraggiosa, soccomberà all’amore per l’eroe/protagonista di turno. Se questo è giustificabile in un romanzo storico – dove la posizione sociale delle donne rispecchia, o dovrebbe rispecchiare una visione misogina del potere e della società – questo assunto diventa scarsamente concepibile e condivisibile nel fantastico e nel fantasy in special modo. Oggi, molti romanzi YA appartengono al fantastico, o ne subiscono il fascino e le contaminazioni. Poiché il numero maggiore di lettori forti è dato dalle ragazze, spesso le cover sono indirizzate esplicitamente a loro. La conseguenza immediata è che i ragazzi tendono a non leggere o a leggere altro in quanto ritengono che i testi offerti dalle case editrici siano troppo “femminili”. Oggettivamente, al di là del fantasy puro, è difficile trovare volumi che siano in grado di rivolgersi a una platea indifferenziata e soprattutto, cover che non indirizzino gli acquirenti. Ma, mentre le ragazze sono in grado di superare simili obiezioni (basti pensare alle numerosissime fans di Martin con cover chiaramente neutre se non “maschili”), per i ragazzini questo appare come un ostacolo insormontabile. In una società in cui femminilità è sinonimo di sentimentalismo, la cover può fare davvero la differenza in un libro e per i suoi lettori, specie se si tratta di libri che trascendono il genere e che, forzosamente, vengono inseriti in un determinato filone (un po’ come Baudelaire accanto alle storie di Topazia).
“In the case of gendered covers, the cumulative effect is to suggest that books by or for women, no matter what their content, are more trivial, more fluffy and less significant than books by or for men.” 

[Nel caso delle cover genderizzate, l'effetto cumulativo è di suggerire che i libri scritti da o rivolti a donne, non importa quale sia il loro contenuto, siano più superficiali, più leggeri e meno importanti dei libri scritti da o rivolti a uomini.]
È scritto in un articolo on line del Guardian. Purtroppo, è difficile dar torto a quest’affermazione. Un libro di un autore con una copertina “maschia” ha maggior possibilità di essere preso sul serio e valutato con equilibrio a parità di argomento e approfondimento storico e psicologico rispetto al testo di un’Autrice. Un testo scritto da un uomo, con una cover priva di espliciti ammiccamenti al genere comporta automaticamente che il lettore/acquirente si concentri di più sul testo: apre il libro, legge la trama con maggior attenzione.

Non sono pregiudizi sessisti. È un dato di fatto. A riprova di ciò, è stato fatto un esperimento, chiamato Cover flip: sostituire una cover che ammicca alla consumatrice/consumatore con quella per il sesso opposto. (Link all’articolo originale)

Il risultato è forte, tanto da indurre davvero il lettore a riflettere. L’ideatrice di questa sorta di inchiesta, che è anche una forma di protesta, Maureen Johnson ha reso noto che spesso i ragazzi le scrivono chiedendo che i suoi libri abbiano delle “non girlie covers” così da poterli leggere senza vergognarsi o subire le prese in giro degli amici. L’idea di fondo, non pronunciata apertamente ma che serpeggia in maniera sottile e insinuante è che le donne siano più facili da accontentare, che rappresentino una quota di mercato che si accontenta di poco, o peggio, di spazzatura. (Mondadori e The Vincent Boys: sounds familiar?)

Altresì, ci si è resi conto che sulle cover raramente appaiono esponenti delle minoranze: raramente troverete copertine con una ragazza afroamericana, o con un’asiatica. Le figure sono quasi sempre bianche, portatrici di modelli di bellezza che spesso poco hanno a che fare con la trama del testo.

Per concludere.
Il vero nocciolo del problema è che nel momento in cui si considera il libro non più come veicolo culturale nella sua considerazione più ampia e si passa alla valutazione del bene/libro in quanto oggetto di valutazione economica, allora esso diviene oggetto di marketing e come tale, cover, advertisement e packaging sono esplicitamente indirizzati a chi il libro può permetterselo.

Uomini che odiano le donne: perché il femminicidio esiste ed è un problema

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Anche lei avrà goduto, no? Le donne amano essere violentate, le dice, mia moglie dice che sogna sempre di essere violentata. E io ho fatto solo quello che ogni donna sogna.
Dacia Maraini, L’amore rubato

Era una vecchia, vecchia storia la feroce eppur tacita ostilità fra queste due persone; un’inevitabile antipatia; una lotta fra genere e genere; fra classe e classe, piuttosto che fra individui: la lotta tra la donna che domanda rispetto, e l’uomo che rifiuta di concederlo.
Amy Levy, La storia di una bottega

Il correttore automatico di Office Word segnala la parola “femminicidio” come un errore grammaticale. Sotto, un segno rosso eloquente. Clicco aggiungi, e il segno rosso scompare. Non è altrettanto facile nella realtà. Imperano i negazionisti, accanto a una sempre più vasta schiera di persone che ammette l’esistenza di un fenomeno con un comune denominatore riguardante le donne, ma che respinge l’idea che sia stata la cultura dominante maschile a sublimare il valore meramente funzionale (e subordinato) della donna che ha portato alla radicalizzazione del “conflitto fra sessi”, se per conflitto si intende la conseguenza alla naturale rivendicazione femminile per l’uguaglianza dei diritti, effettivi e non aleatori. La violenza fisica e il femminicidio sono le forme di discriminazioni che assommano tutte le altre e che investono la società trasversalmente. Risulta impossibile, infatti, conservare il valore tradizionale della figura maschile e nel contempo garantire le libertà fondamentali alle donne.

Un esempio. È il 4 ottobre 2012. Il Fatto Quotidiano annuncia l’imminente pubblicazione del saggio del giornalista e conduttore tv Riccardo Iacona per Chiarelettere Se questi sono gli uomini, in aggiunta a un video di presentazione dello stesso autore. I commenti ci rimandano una fotografia significativa del sentire comune; si legge infatti: “Mi serviva giusto qualcosa per pareggiare la gamba del tavolo che traballa”, “Tutte balle e io come uomo mi sento offeso da questi articoli”, “Le statistiche sono false e non provate, è solo un modo per creare un pregiudizio verso gli uomini”, “Il femminicidio non esiste, la violenza di genere non esiste, in Italia non esiste nessun allarme violenza donne”, “Gli ammazzati sono gli uomini”, “Tutto iniziò con l’infausto nome femminismo”, e potrei continuare ancora.

I commenti sono 236 in totale. Moltissimi uomini rispondono a un problema de facto con altri problemi, nei quali le donne sono le colpevoli, le carnefici: i bambini uccisi (argomentazione portata avanti anche dagli ultracattolici che pongono l’accento sull’infanticidio con oltre 3 milioni di “bambini” morti dopo l’introduzione della legge 194), le maestre stupratrici, gli uomini in fila alla Caritas, spogliati di ogni dignità e denaro dopo il divorzio. Ma c’è anche la responsabilità condivisa: “È la donna che è del tutto incapace di amare un uomo senza sentirsi prima posseduta. L’uomo semplicemente si adegua a questo irrazionale bisogno della donna e l’accontenta”. L’immagine è quella di un uomo servizievole, mentre è la donna l’essere perturbante, l’elemento irrazionale della coppia legato a una concezione atavica del femminile. Donna-strega legata all’animalità, agli impulsi, al primitivo; la medesima rappresentazione medievale che stigmatizzava la sfera sessuale delle donne, repressa fino al secolo scorso. Gli uomini, d’altro canto, si sentono punti nel vivo dal titolo, si generalizza, dicono.

La radice è culturale, sebbene si continui a negare l’evidenza. Ciò che viene definito naturale viene a coincidere con l’abitudine e il costume della società, ovvero quello che è socialmente accettabile da secoli, come il ruolo subordinato della donna. In risposta a una commentatrice leggiamo: “Credere che gli uomini uccidano le loro compagne per via di un’antica mentalità maschilista e patriarcale è misandria e un rifiuto di addentrarsi nel disagio maschile, nonché paura di scoperchiare le responsabilità femminili e sbugiardare mezza ideologia femminista.” Antica mentalità. Quanto antica se la discriminazione verso le donne non si è ancora estinta? Il disagio è maschile, dunque. Il commentatore, perché di un uomo si tratta, invita alla comprensione, all’identificazione con l’uomo che ha perso i propri punti di riferimento a causa del femminismo. La donna da vittima diventa complice, provocatrice. Lipperini e Murgia, nel saggio L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!, parlano di concorso di colpa. Come può l’uomo resistere a una femme fatale? A una donna in abiti discinti? Come può l’uomo non sentirsi minacciato dalle legittime rivendicazioni delle donne?

Le stesse domande che hanno riempito gli schermi televisivi per settimane quando il parroco don Piero Corsi di San Terenzo, comune di Lerici, rilancia un articolo comparso su Pontifex.it pubblicando sulla bacheca della propria Chiesa un volantino intitolato: “Le donne e il femminicidio. Facciano sana autocritica, quante volte provocano?”. L’indignazione è stata rapida e generale, e si è spenta altrettanto velocemente. Ma quanti, in realtà, condividono intimamente le stesse opinioni, ma non si ha il coraggio di ammetterlo? Quanto questa forma mentis è diffusa? Il pregiudizio di genere non è una prerogativa del maschile, anzi, anche le donne stesse ne sono vittima; sono idee così radicate nella psiche umana che non vengono mai poste al vaglio, mai problematizzate ma accettate senza obiezioni. Lo stesso automatismo che sorge al momento dell’offesa verso la donna: gli epiteti “troia” o “puttana” vengono utilizzati in qualsiasi contesto, anche svincolato dall’ambito sessuale.

Un particolare atteggiamento delle donne riguardo la violenza di genere emerge quando si antepone l’io singolo alla collettività: io non sono mai stata discriminata nel posto di lavoro, io non ho notato differenze di genere, io non sono stata vittima di violenze. Io, sempre io. L’uomo, infatti, è costituito da una tendenza solipsistica che contrasta con l’esigenza di un rapporto affettivo reciproco. “Non bisogna mirare alla parità, ma ai risultati” ha detto una signora, libera professionista, intervenendo a un incontro sulle questioni femminili durante il Salone del Libro di Torino 2013. Lei ce l’ha fatta, quindi perché bisogna parlare di violenza, femminicidi, discriminazioni, parità, lotte sociali, culturali e politiche? Il tessuto sociale si sta disgregando e ne sono la prova proprio queste solitudini che non riescono a convergere in un punto comune. 

La donna è vittima di violenza fisica perpetrata dall’uomo, che è a sua volta vittima di violenza psicologica da parte della partner, si evince da alcuni commenti comparsi sul sito Cado in piedi relativi all’articolo firmato da Bruno Volpe di Pontifex, lo stesso sito di apologetica cattolica che aveva pubblicato un articolo – attualmente non più disponibile − intitolato Il femminismo satanico condannato dalla Muliebris dignitatem di Giovanni Paolo II. In un’intervista del Gr2 don Piero chiede al giornalista Paolo Poggio: “Cioè, scusi, quando lei vede una donna nuda, cosa prova? Quali sentimenti prova, quali reazioni prova? Non so se è un frocio anche lei o meno, cosa prova quando vede una donna nuda? Non è violenza da parte di una donna mostrarsi in quel modo lì?” Le domande del parroco sono, evidentemente, retoriche e non necessitano di spiegazione.

Avviene altresì che, superficialmente, si pensa che lo sfondo dei femminicidi sia un presunto problema psichico dell’omicida. L’uomo era pazzo d’amore, depresso, frustrato, disoccupato; preda di un raptus improvviso ha compiuto un gesto disperato, quello che pochi decenni fa sarebbe rientrato nella categoria del “delitto d’onore”, abolito il 5 agosto 1981, e che sembra essere rimasto nella nostra società come retaggio culturale. Era un uomo normale, così si legge nelle testate dei grandi giornali, in tv, nei social network dove rimbalza la notizia di una nuova vittima.È stato provocato, era addolorato per la perdita dell’amata (che però non ha avuto problemi a uccidere: mia o di nessun altro), era disperato perché non riusciva a trovare lavoro, e il giornalismo mediatico si adagia con pigrizia in banali analisi psicologiche dell’omicida. “Nella lettura patologica dei femminicidi risulta che pochissime di quelle morti sono premeditate, che solo una piccola percentuale tra gli assassini sarebbe pienamente padrona di sé nel compiere l’atto e che comunque nessuna delle donne defunte è mai del tutto innocente della sua sorte infelice. L’assoluzione del colpevole va infatti di pari passo con la colpevolizzazione della vittima, un effetto che viene ottenuto cercando di comunicare l’idea che i fatti siano avvenuti per concorso di colpa e sia quindi necessaria una distribuzione di responsabilità” scrivono Murgia e Lipperini nel loro saggio, entrambe scrittrici che si interessano quotidianamente delle problematiche legate al femminile.

Solo recentemente, da quando il “femminicidio” è diventato mainstream, alcuni giornalisti/e prestano attenzione alle parole che impiegano. Il primo step è l’utilizzo del nome proprio, donne non più concepite come “madre di”, “sorella di”, “ex di”, “fidanzata di” senza alcuna identità propria. Perché le parole sono importanti, hanno un peso specifico: bisogna parlarne, ma nel modo corretto. Sensibilizzare. Denunciare. 

L’uomo non riesce ad accettare di essere abbandonato; essendo la donna mera funzione di sé – e non un essere umano senziente − come potrebbe esercitare il diritto di abbandonare? Da sempre, nella società patriarcale, la donna ha assunto un ruolo subordinato, un valore umano che condivideva l’importanza di un oggetto materiale, impossibilitata persino ad avere del denaro proprio. Nonostante ciò l’uomo, da quell’oggetto che ha fatto proprio e che ha plasmato secondo i propri desideri, vuole essere riconosciuto, anche se di vero riconoscimento non si può parlare. Il femminicidio si configura quindi come il naturale risultato di una “poetica del possesso e della prevaricazione” che non è mai scemata; la legge primitiva della forza che è stata per lungo tempo l’unica norma di condotta. “Gli uomini non s’appagano dell’obbedienza delle donne. Essi si arrogano il diritto anche sui loro sentimenti. Tutti, tranne i più brutali, vogliono avere nella donna che è loro strettamente unita, non soltanto una schiava, ma una favorita. Di conseguenza non trascurano nulla per educare il suo spirito al servilismo. I padroni delle donne vogliono più dell’obbedienza, per cui han rivolto a profitto dei loro disegni tutte le forze dell’educazione.” Siamo nel 1869, ma le eco delle parole di John Stuart Mill e sua moglie Harriet Taylor risuonano ancora attuali, perché le conquiste delle donne − dal voto alla 194 − non sono bastate per cambiare il background culturale improntato al maschilismo al quale nessuna nazione si è ancora sottratta, salvo alcune eccezioni. Un fenomeno globale, dunque.

Nel 1929 Virginia Woolf scriveva, nel suo saggio Una stanza tutta per sé, che le donne hanno sempre avuto la funzione di specchi: riflettere l’immagine dell’uomo raddoppiata. Ed è proprio la vanità ferita, il primato di superiorità perduto, che l’uomo non riesce ad accettare. È colpa dei femminismi, una denominazione generica per contrastare le legittime rivendicazioni della donna. Sfumate quelle dogmatiche divisioni di ruolo che vedevano la donna madre e moglie – angelo del focolare – e l’uomo virile che provvede al sostentamento della famiglia, il maschile non riesce a costruirsi un nuovo ruolo nella società contemporanea che non presupponga un “ritorno alle origini”, a un prima nostalgico nel quale ci si vuole rifugiare. Perché prima le certezze c’erano eccome, per l’uomo.

Un altro esempio. Qual è lo scopo della legge 194 se la maggioranza dei medici pratica l’obiezione di coscienza (nella maggioranza dei casi non per questioni legate all’etica), con la complicità dei farmacisti che si rifiutano di vendere la “pillola del giorno dopo”? Una legge che è stata una conquista per l’autodeterminazione femminile nella seconda metà del secolo scorso viene continuamente messa in discussione e minata alle fondamenta. Nel 1997 il 60% dei ginecologi e il 50% degli anestesisti si dichiarava obiettore. Nel 2009 la percentuale di ginecologi è salita al 71%, mentre oggi superano l’80%, e la percentuale è destinata ad aumentare. Entro 5 anni, si prevede, sarà impossibile praticare l’aborto in Italia, se le percentuali continueranno a salire con lo stesso ritmo. Come alla Asl di Bari nella quale tutti i medici sono obiettori; o in Basilicata dove lo sono 9 medici su 10; o a Treviglio, provincia di Bergamo, dove 24 anestesisti su 25 obiettano. Nel Lazio 9 ospedali pubblici non garantiscono l’interruzione di gravidanza, come invece imporrebbe la legge a tutti gli ospedali non religiosi. Il diritto all’interruzione di gravidanza è assicurato se le donne sono costrette a ricorrere a cliniche private, andare in altre regioni oppure affidarsi alle “mammane”? La libertà di scelta è garantita se le madri che scelgono di abortire vengono stigmatizzate e tacciate di infanticidio, presupponendo che la visione cattolica sia quella privilegiata e veritiera? Non è anche questa discriminazione e violenza? Diritti non effettivi, dicevo all’inizio, perché la priorità attuale dell’Italia non è la parità delle donne, ma la crisi economica. L’economia è importante, le donne meno (per usare un eufemismo). Rossella Palomba, demografa, si è chiesta: se non ora, quando? Fedele alla propria professione la Palomba sciorina qualche dato interessante, frutto di alcuni studi. “Se le cose continuano così, ovvero se il cammino delle donne in ambito lavorativo evolverà con la stessa velocità – afferma – nel 2138 avremo la parità tra i professori ordinari; nel 2425 la parità ai vertici della magistratura; nel 2660 la parità fra i diplomatici; nel 2143 la parità nei consigli d’amministrazione (se non ci fosse la legge Golfo-Mosca). Dobbiamo aspettare il 2319 per la parità nei lavori domestici. Tutti questi secoli che dobbiamo aspettare… Le donne sono pazienti, certo, però forse quando ci dicono di aspettare senza intervenire è una perdita di tempo. Lo dico soprattutto per chi è giovane. Consigliare a una ragazza di aspettare un paio di secoli per essere pari al proprio collega non fa una bella impressione.”

Il femminicidio, dunque, rappresenta solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che l’Internazionale ha definito “La guerra contro le donne”, dedicando la copertina e uno speciale dell’edizione della seconda settimana di marzo. Un’escalation di stalking, violenza domestica, stupri, discriminazioni, mancanza di diritti. Lo psicoanalista Massimo Recalcati scrive: “La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell’umiliazione dell’insulto e dell’aggressione verbale. La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta. […] Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine.” Non amore, ma la paura dell’abbandono di cui si parlava precedentemente; una paura che sovente si trasforma in rabbia.

Per gli scettici qualche cifra, dopo le previsioni da Cassandra fornite dalla Palomba. Numeri impressionanti che non possono essere accompagnati da tutti i nomi, i volti, le storie di queste donne per assenza di spazio sufficiente; ma basterebbe una ricerca su Google per sopperire a questa mancanza, per verificare l’entità smisurata di un problema che ci riguarda tutti da vicino. Negli Stati Uniti viene denunciato uno stupro ogni 6,2 minuti, ma il numero reale probabilmente è cinque volte superiore. Circa 54.401 stupri, effettivi quasi 3 milioni se la stima è attendibile. Nell’esercito statunitense, nel 2010, sarebbero state registrate 19mila aggressioni sessuali. 11.766 donne vittime di omicidi domestici dal 2001. Ogni 9 secondi, negli USA, una donna è picchiata, ed è la prima causa di ferite tra le donne americane. In Argentina nel 2012 ci sono stati in media cinque femminicidi alla settimana. Il Sudafrica si segnala, invece, come la capitale dello stupro con più di 600mila stupri nel 2012. 78mila stupri in Inghilterra, solo 1153 le condanne.

In Italia una donna muore ogni tre giorni. L’indagine del 2010 del Global Gender Gap Index, condotta dal World Economic Forum, rivela che l’Italia, su 128 paesi, occupa il 74° posto per l’uguaglianza di genere. Da un’indagine di Manageritalia del 2012 emergono dati interessanti: fino ai 29 anni il 14,9% delle donne sono laureate, contro il 9,4% maschile, nel 71,6% dei casi le donne si laureano entro i 27 anni, contro il 66,7% degli uomini. In ambito professionale vediamo le percentuali femminili crollare: il 46,5% delle donne tra i 15 e i 64 anni ha un impiego, la percentuale maschile, invece, sale al 67,4%; nel settore privato ricoprono una posizione dirigenziale l’87,7% degli uomini, la presenza “rosa” si ferma al 13,3%. In caso di violenza, le donne non hanno autonomia, non sanno a chi affidarsi; restano solo i loro persecutori, che talvolta sono comunque restie ad abbandonare. Come Rosaria Aprea, la ventenne di Macerata che, dopo essere stata ricoverata in ospedale per più di una settimana (con relativa asportazione della milza ed emorragia interna) a causa delle percosse del compagno, rilascia un’intervista al Corriere del Mezzogiorno nel quale smentisce le violenze e afferma di voler tornare con Antonio, imprenditore ventisettenne attualmente in carcere accusato di tentato omicidio. L’ultimo caso di cronaca, al momento in cui si scrive, è quello di Fabiana Luzzi, sedicenne calabrese uccisa a coltellate dal fidanzatino (17 anni) e bruciata viva. Non si esclude la premeditazione. Tornando indietro di qualche mese e spostandoci geograficamente, il 25 gennaio 2013, durante le manifestazioni in piazza Tahrir, Cairo, per il secondo anniversario della rivoluzione egiziana 19 donne sono state aggredite sessualmente, spogliate e violentate in pubblico. Il Corriere della sera però parla solo di 16 feriti e dello scontro tra i giovani e la polizia che spara lacrimogeni sulla folla.

Le donne sono fantasmi, la violenza di genere un rumore di sottofondo che i più si ostinano a ignorare e negare nonostante sia lesiva dei diritti civili e umani. Nell’ambito letterario italiano, però, si assiste a un rinnovato interesse per la tematica, che valica i confini degli studi di genere e della saggistica di nicchia. Oltre ai già citati saggi L’ho uccisa perché l’amavo. Falso! e Se questi sono gli uominiè doveroso segnalare Ferite a morte, libro e progetto teatrale di Serena Dandini, Nessuna più, antologia curata da Marilù Oliva a cui hanno aderito 40 scrittori e scrittrici i cui proventi andranno all’associazione Telefono Rosa, e Il male che si deve raccontare di Calloni e Hornby i cui ricavati contribuiscono alla creazione della sezione italiana di Edv. Perché il silenzio non è una soluzione, ma il complice della violenza. Quello che si dimentica è che le parole hanno potere: generano realtà, favoriscono e indirizzano le azioni; le parole organizzano il dissenso, la cultura lo costruisce, ci suggerisce Michela Murgia. Ed è per questo che bisogna parlare di femminicidio, problematizzare la tematica, e ammettere la sua esistenza. Perché gli “uomini che odiano le donne” esistono e gli omicidi non possono essere negati con la stessa facilità con cui si contesta l’utilizzo di un neologismo.


Post Scriptum
Ho scritto questo articolo il mese scorso, anche se lo pubblico solo ora. La violenza di genere è una tematica che mi sta particolarmente a cuore, ed è per questo motivo che ho deciso di parlarne anche su Diario, da sempre il mio luogo prediletto. La redazione, infatti, dalla fine dello scorso anno sta lavorando a una campagna di sensibilizzazione chiamata What women don't wantche ha raggiunto complessivamente più di 4 milioni di contatti con i due ebook pubblicati, progetto attualmente alla ricerca di un editore per una versione inedita. Una cifra grandissima che non ha mancato di stupirmi e meravigliarmi, nonché riempirmi di gioia perché testimonia un vasto interesse per la tematica. 

Quando l'erotico diventa un gioco: "Ragazza entra in un bar" di Helena S. Paige

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Cari lettori,
come ormai sapete la Redazione di Diario deve sempre partorire idee folli altrimenti non è contenta e anche questa recensione non scappa a questa regola ormai assodata. Non sappiamo quanti di voi conoscano i libri-game, libri che andavano di moda negli anni ’90, nell’era pre-videogiochi supertecnologici, quando ancora ci si divertiva con un libro, un dado e un foglio di carta. Ebbene un libro-game è un libro che durante la lettura ti propone dei bivi, delle decisioni da prendere e in base alle scelte la storia prenderà una strada oppure un’altra.
Da domani 5 luglio sarà disponibile in anteprima mondiale su tutti gli store online un libro digitale, Ragazza entra in un bar, della casa editrice Rizzoli, che ha le stesse caratteristiche di un libro game.

Noi ragazze della Redazione lo abbiamo letto per voi e ci siamo divertite un mondo, non solo nel corso della lettura, ma anche a scrivere questa recensione.

Autore: Helena S. Paige
Titolo: Ragazza entra in un bar
Casa editrice: Rizzoli
Genere: Rosa
Formato: E-book
Pagine: 214
Prezzo:€ 6,99 (dal 5 al 7 luglio incluso il prezzo dell'ebook è di € 3,99)
Data pubblicazione: 5 luglio 2013
Trama: La tua migliore amica non può raggiungerti nel locale esclusivo dove avevate un appuntamento. Potresti tornare a casa oppure provare a divertirti. Accettare l'invito nella sala vip da parte di una rockstar? O quello di un ricco uomo d'affari, un po' Christian Grey, un po' George Clooney, per sperimentare nella sua lussuosa suite i giocattoli chiusi nella ventiquattrore di pelle? Insegnare qualche tecnica al barman giovanissimo e inesperto ma con un fisico da urlo? Seguire un'artista misteriosa nella galleria dove espone quadri erotici di cui lei stessa è il soggetto? O salire con una guardia del corpo sull'Aston Martin del suo boss? O ancora tornare a casa per fare la conoscenza del nuovo vicino? Tocca a te scegliere, e ogni possibilità apre le porte a una diversa avventura sexy, unica e appagante.

RECENSIONE
Il libro-game è prima di tutto un gioco, un momento ludico in cui perdersi e staccare la spina ed è proprio con questo spirito che dovete leggere e avvicinarvi alla lettura di Ragazza entra in un bar.

Se saprete cogliere questa sfumatura, la lettura vi divertirà molto e vi saprà conquistare. In effetti nessuno degli elementi che generalmente strutturano un libro svettano per originalità o forza in questo testo scritto da Paige Nick, Helen Moffett, Sarah Lotz con lo pseudonimo di Helena S. Paige, ma quello non è l’importante. L’elemento fondamentale è il divertimento, giocare con i bivi, i personaggi e osare ciò che normalmente non faremmo mai, nemmeno se alcune delle strade si realizzassero davanti ai nostri occhi una sera durante un’uscita al bar.

Lo scopo è intrattenere, divertirsi, e questo libro permette di fare tutte queste cose; se poi avete la possibilità di leggerlo in contemporanea con le amiche, allora i commenti, le risate, le scelte di una o dell’altra radiografate attentamente dalle vostre compagne, vi apriranno a un momento di frizzante complicità del quale probabilmente serberete un ricordo per lungo tempo. 

Qualcuno potrebbe notare le atmosfere solo abbozzate, le storie al limite del surreale (qualcuna parlerebbe di fantascienza pura) che punteggiano avances e scene di sesso “caliente”, i personaggi stereotipati  ma che personaggi stereotipati diremmo noi! –, il tutto raccontato con uno stile semplice, lineare ma ironico e divertente e quindi…. perché no?!

Lasciamoci trasportare per un po’ in un mondo di frivolezze e divertimento senza impegno e, con molta ironia, chiudiamo fuori i pensieri e gli impegni giornalieri e godiamoci del sano puro divertimento.

E per darvene una prova ecco i nostri commenti personali durante e a fine lettura. 
Un momento di leggerezza che non annoia e per giocare un po’ con noi vi chiediamo: qual è il vostro colore preferito?...

Scegliete un colore e leggete il commento corrispondente:

1) Rosso Valeria

2) Verde Gabriella

3) Azzurro Antonella

4) Cobalto Stefania

5) Fucsia Elena

6) Arancione Gina

Gabriella

Prima scena "Scelta delle mutande adatte in puro stile Bridget Jones". E già, perché una ragazza single che deve andare in un bar con il possibile intento di rimorchiare, deve fare una scelta oculata.

– Mutande comode?
– Mutande contenitive?
– Perizoma sexy? (chissà perché del perizoma è specificato il colore – viola, di pizzo coi bordini di seta  mentre delle altre mutande no!)
– NIENTE??? O___O

Ragazze, voi che vi mettete?
Io opterei per le mutande comode, perché quando sto scomoda mi innervosisco per un nonnulla, e stasera non mi sembra proprio il caso...
[...]
Ma insomma, ditelo che ci dovevamo mettere il perizoma! Tutte le strade portano al perizoma (che fa rima con Roma). E dire che a me il viola non piace neanche, quindi è impossibile che ne abbia uno nel mio cassetto delle mutande. Tutt'al più leopardato...

OK, sono (s)comoda nel bar e benedico quella bidonista della mia amica Melissa.

Comunque lo dico chiaro e tondo: è vero che mi piace giocare, ma sono poco propensa alle avventure. Io sono una rommmmantica e quindi mi attacco al primo che ha folgorato la mia fantasia, ovvero il baby-barista. Tutte le altre strade, fra parentesi, mi spaventano-disturbano un pochino. Quindi io cerco di andare sul sicuro per la mia strada, OK?

E dunque, lasciatemi il baby-barista perché l'ho visto prima io! :P


Stefania

Allora.
Io voglio capire perché non posso mettermi la pancera. IO ESIGO LA PANCERA.
Sinceramente. Non mi sento a mio agio in quel filo interdentale violaceo. E poi io non sono tipo da rimorchio, o meglio, lo sono fin troppo. Nel senso che sono morbida come un rimorchio da camion.

However. Visto che devo proprio mettere il perizoma e i tacchi, almeno scelgo un profilo comodo.

Scelgo di giocare in casa, mi appollaio sullo sgabello del bar, flirto con il barista (a proposito, bel B side  Si guarda ma non si tocca, Stefy!) e rimango in attesa... della rockstar?! Oh, yeah. Il batterista figo.

Occhei, procediamo. Confesso che non amo la tequila, troppo amara. Sono più un tipo da mojito, ma tant'è. Se bevo a stomaco vuoto parto pure con un Martini annacquato. Il batterista è intrigante, non so perché me lo immagino con la faccia di Beckham (saranno i tatuaggi?) e ricco in maniera scostumata (sarà la truzzaggine?)
Insomma.

Scena di sesso che Ossignore-no-ma-anche-sì-continua-non-ti fermare-rivoltami-come-una-cotoletta.
E poi... poi.
La debacle. Clamorosa e rovinosa. Il morale si è afflosciato (mentre altra roba rimaneva sulla breccia a lottare coraggiosamente.)

Il finale di scena è assolutamente esilarante.

Meno male che arriva la tibia frantumata e gli scatoloni del vicino strappamutande e scrittore (vabbè, nessuno è perfetto).
No, non sono andata da Melissa. Mi ha mollato in un bar da sola, a fare da esca a un pappone ipertricotico e sudaticcio.
Quasi quasi torno indietro e provo a cercare il sentiero che mi porta al fighissimo Miles... anche se temo le conseguenze.


Gina

Ragazza entra in un bar… quella ragazza sei tu e devi fare scelte che ti condurranno a vivere delle storie anziché altre. Questo è il “gioco” del libro. Un gioco molto divertente che ti fa essere la protagonista di un racconto vivace e spiritoso.

Devi uscire con la tua amica per una gran serata come non si verifica da tempo, e allora è importante: che metti sotto il vestito? Beh, la scelta non è facile, tra voglia di comodità, sensualità e confort, ma da quella dipende l’evolversi del racconto. Perciò attenta a ciò che scegli!

Via, la scelta è fatta, si va! Il locale alla moda dove hai appuntamento con la tua amica ti abbaglia. Da quanto tempo non ne vedevi uno così? Si prospetta davvero una gran serata, anche perché la tua amica ti dà buca, non può più venire, e tu ti ritrovi sola in quel luogo gremito di bella gente, vip, uomini e donne in cerca di avventure. Ma devi scegliere ancora…torni a casa o affronti da sola la serata? Resti, resti, altrimenti il gioco finisce, no?

Che carino quel ragazzo che ti serve da bere… quanto è affascinante quell’uomo che ti salva da un “gorilla” che ti adocchia e ti si appiccica… e che strana donna quella che incontri nel bagno delle signore! Ma poi ancora, altri incontri, altri desideri. Ti si aprono strade diverse: puoi sempre ancora tornare a casa, oppure decidere di approfondire una delle tue nuove conoscenze.

Cosa ho scelto io poco importa. Ogni strada porta da qualche parte intrigante.

Il libro-game di questa ragazza che per caso entra in un bar è intrigante nel gioco che ti offre. Certo, avrei preferito che fosse “pour cause” anziché per caso. Forse la storia sarebbe stata raccontata in maniera più credibile, forse il sesso che ho fatto quella sera sarebbe stato descritto in maniera più erotica, forse la mia vita si sarebbe arricchita di un gioco nuovo. Forse… ma il gioco è quello, e io ci sono stata. Non si possono cambiare le carte in tavola una volta che le hai tirate via dal mazzo, allora vale la pena giocare fino in fondo.

E attenzione: non credere di essere al sicuro se e quando decidi di tornare a casa…


Elena

Ohibò, anche a me tocca commentare, di certo quel perizoma viola non piace a nessuno ma alla fine tocca metterlo. Arrivi al bar e il ben di dio ti si para davanti, occhieggi un tipo, ti volti verso un altro, scappi da un altro ancora (da brivido ve lo assicuro), decidi di fare l’alternativa: niente bar si fa di arte.

Dietro l’angolo una bella sfida: farlo o non farlo, ho il coraggio o meno, ma sì, è solo un gioco, osiamo!! Intrigante la storia, ma ahimè finisce troppo presto. Qua ragazze bisogna ricominciare perché uno non mi è bastato, voglio quello giusto, quello che vorrei incontrare nella vita reale… lo trovo, è l’insospettabile ma mi dà tutto ciò che vorrei e… che tenero, siam proprio fatti l’uno per l’altra, scappo a casa, è ormai tardi, son felice e lui sa dove abito, non sia mai che da cosa nasce cosa… chiudo il libro e, sorriso sulle labbra, me ne vado a nanna.

Strana serata ho passato, ma quanto mi sono divertita?! Provare un’altra strada? Nooo, son già contenta della mia!


Valeria

La serata si prospetta interessante, mi sono già messa in modalità da "stracucco" e vado senza indugio a indossare il perizoma (ok, magari non l'avrei scelto viola, sono superstiziosa, portasse male!) Comunque, pronta per la partenza e in gran tiro, vado al locale e già al bar mi sale la temperatura corporea non tanto per il vino ma per quel gran figo e sexy barista (magari un po' giovane, ma la fantasia sta già ingranando la marcia) E Daje! Il barista è mio! Detto questo vado avanti spigliata e, tra languide occhiate al fanciullo di fronte a me e un quantomai insolito incontro nel bagno, non mi tiro indietro neppure alle avances al sapor di tequila del batterista gagliardo. Melissa mi ha dato buca, ma chissenefrega, non torno a casa neanche se mi pagano il taxi!! Infatti, pure il palestrato bodyguard mi offre un passaggio ma io, spudorata, lo pianto in asso per andarmi a "intrappolare" (in tutti i sensi) sul letto di quell'elegante e sfacciatamente ricco George Clooney della situazione.

Per carità, chi si accontenta gode (!) e alla fine, dopo il "famolo strano" sono soddisfatta come una pasqua e mi faccio pure la cioccolata calda in caffetteria.

Ma chissà perché ancora penso a quel giovane barista così sexy...  VALERIA!!!


Antonella

Odio il perizoma. Solo l'idea mi fa imbestialire. Io avrei scelto un completo grigio di raso o carta da zucchero. Sul tubino nero concordo. Uscire con un’amica per andare a rimorchiare: io non lo so se il punto è che sono di un'altra generazione, ma questo è letteralmente impossibile. Se ho l'obiettivo di uscire con un uomo, quel che devo fare è convincerlo che deve letteralmente sbavare per poter uscire con me, e la cosa richiede tempo, programmazione, attesa e tattica. O un semplice cedere, ma dopo che lui lungamente abbia spasimato. E se spasimo troppo io? No, gli do troppo agio: la cosa partirebbe svantaggiata per me: evitare. Deve desiderare fortemente di poter uscire con me e forse l'otterrà. E sottolineo: uscire! E non potrei mai cedere al fascino di uno che ho appena incontrato: quel che dovrebbe attrarmi non può essere conosciuto solo con la vista (o qualche altro senso. O tutti).

Detto questo, il fotografo... ha il suo perché. Sostanzialmente risulta sexy proprio perché non immediatamente interessato alla ganza. Attraente è il suo affaccendarsi attorno agli strumenti del mestiere: l'uomo che fa qualcosa, che maneggia la realtà, che la modifica col talento, questo sì che è veramente intrigante.

Poi... ok. Lieto fine. Se così lo si vuole chiamare. Forse sarei saltata direttamente alla cioccolata calda. A questo livello, lussuria e gola sono praticamente equivalenti, uno sfizio momentaneo; è vero che la cioccolata calda ha parecchie calorie, mentre col sesso, invece di accumularle le calorie, si perdono, ma tanto vale. E diciamocelo, tutti questi uomini, intellettuali, sexy, accessibili, intelligenti... questo romanzo ha sbagliato genere: è pura fantascienza!


L’AUTORE:Helena S. Paigeè lo pseudonimo dietro cui si nascondono tre amiche. Paige Nickè romanziera e copywriter pluripremiata. Tiene una rubrica settimanale sull’edizione sudafricana del Sunday Times nella quale parla di sesso, sentimenti e follie varie. Helen Moffettè scrittrice free-lance, poetessa, editor, attivista e professoressa universitaria. Tre le sue molte passioni figurano anche il cricket e il flamenco. Sarah Lotzè sceneggiatrice e autrice di romanzi con un debole per gli pseudonimi. Come S.L. Grey, scrive romanzi horror insieme al collega scrittore Louis Greenberg. Con la figlia Savannah e lo pseudonimo Lily Herne, firma una serie di romanzi per giovani adulti. 
Come Helena S. Paige, le tre amiche hanno dato vita alla prima serie di libri-game “sexy” per lettrici appassionate ed emancipate, decise a rivendicare il controllo delle proprie fantasie erotiche. La struttura a bivi della narrazione consente a ciascuna di costruire la propria avventura su misura, dove il lieto fine è sempre assicurato.

Recensione "I Dodici" di Justin Cronin

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Cari lettori,
Mondadori, per nostra fortuna, non pubblica solo robaccia come gli pseudo romanzi d’amore (e tanto sesso) come The Vincent Boys (inserire brivido di fastidio). Un po’ in sordina è arrivato sui nostri scaffali il seguito della bellissima serie distopica di Justin Cronin.

I DodiciAutore: Justin Cronin
Titolo: I Dodici
Titolo originale: The Twelve
Traduzione di Gaetano Luigi Staffilano
Editore: Mondadori
pagine: 672
Prezzo: € 20,00
Data Pubblicazione: 14 maggio 2013
Trama: L'esito catastrofico di un esperimento top secret del governo americano in una remota base militare in Colorado ha trasformato il mondo in uno scenario apocalittico. Il Progetto Noah era finalizzato a creare un virus trasmesso dai pipistrelli che, una volta modificato, sarebbe stato in grado di preservare la razza umana da malattie e invecchiamento. Ma qualcosa è andato storto e le persone utilizzate come cavie per l'esperimento si sono trasformate in creature infette scatenando una terribile epidemia. I Dodici "virali" originari dominano con violenza sanguinaria, mentre gli umani sopravvissuti sono ridotti a bande di disperati che lottano per il cibo e la benzina, alla ricerca di luoghi sicuri dove rifugiarsi. In questo scenario di brutalità e desolazione, tre personaggi combattono la loro personale battaglia. Lila, una donna incinta che sembra non rendersi conto della realtà terrificante che la circonda, Kittridge, un ex marine scampato alla morte a Denver in fuga solitaria e disperata, e April, un'adolescente che cerca a tutti i costi di proteggere il fratellino. Nelle loro diverse ma ugualmente tragiche esistenze è racchiuso il terribile destino che attende il mondo. Molti anni dopo lo scatenarsi della catastrofe, i Dodici, agli ordini di Zero, la loro invisibile ma onnipresente guida, cercano nuove strade per affermare definitivamente il proprio dominio; gli ultimi uomini devono unire le esigue forze per sventare un disegno di distruzione di cui faticano a comprendere i contorni. La speranza risiede ancora una volta nell'ineffabile Amy, la Bambina Venuta dal Nulla, la tredicesima cavia dell'antico Progetto Noah. In Amy il virus si è sviluppato in modo diverso, rendendola l'essere umano più vecchio del pianeta nel corpo acerbo di un'adolescente. È lei che ha la chiave per penetrare nell'orrore della mente dei suoi confratelli di sangue; è lei che dovrà aiutare l'umanità a riscattarsi dall'incommensurabile errore di aver voluto sostituirsi a Dio. Dopo Il passaggio, ecco il seguito dell'epica storia che ha appassionato milioni di lettori nel mondo, un'avventura emozionante che si snoda in un'alternanza tra passato e futuro, in cui il genere umano si misura tanto con il più formidabile dei nemici quanto con la miseria e la grandezza del proprio esistere.

RECENSIONE
In un futuro apocalittico, l’umanità è ridotta al lumicino, a seguito di un contagio che ha trasformato una parte dell’umanità in virali, più simili a animali mutanti. Dall’altra, gli esseri umani rimasti sono asserragliati in sacche di resistenza, così come era accaduto con la Prima colonia, incontrata nel volume precedente, Il passaggioCome in quel romanzo, l'Autore delinea le storie su diversi piani temporali, creando una rete che parte dal un presente non troppo lontano fino a un futuro che viene enumerato con due lettere: P.V. Post Vampiris.

Ne I dodici rincontriamo alcuni dei personaggi visti in precedenza, e accanto a essi, figure nuove, forti, che Cronin delinea con la sua mano ferma, capace di regalare emozioni e di tenere il lettore incollato alla pagina. Ma procediamo con ordine.

I vampiri di Cronin sono cacciatori con istinti animaleschi, che hanno perso vestigia e coscienza umana. Vengono chiamati virali, predano per istinto, e sono comandati a livello mentale e telepatico dai loro capostipiti, coloro che li hanno infettati e da cui a cascata si è esteso il contagio. Questi sono i Dodici, appunto: carcerati condannati a morte che lo Stato aveva messo a disposizione di un pull di esperti per sperimentare un nuovo siero nell'ambito del progetto governativo Noah. Si tratta di un’arma batteriologica che si è ritorta contro gli sperimentatori.

Tra di loro, Amy, la bambina che è stata infettata ed è sopravvissuta rimanendo umana. Simile agli altri capostipiti, non ne condivide la ferocia o la fame di sangue; con loro ha in comune l’estrema longevità e i poteri telepatici che la rendono una sorta di arma, gelosamente custodita dalla Resistenza. Dopo cento anni il suo corpo è quello di un'adolescente.

Accanto a lei ritroviamo alcuni dei sopravvissuti della Colonia: Peter e Alicia, in primo luogo. Avevamo lasciato quest’ultima a combattere tra gli Esploratori, e lì la ritroviamo assieme a Peter, divenuto ufficiale dello stesso corpo militare dopo il massacro di Roswell, un fortino assalito dai fumidi, in cui hanno perso la vita Theo e Mausami, fratello e cognata di Peter. Anche Sara, la sorella di Michael e compagna di Hollis è scomparsa nel massacro, e tutti pensano che sia morta, o peggio, sia stata ghermita, cioè contagiata.

La verità è che Sara, invece, è viva e che si trova in un luogo spaventosamente simile a un lager nazista, dove esseri umani sono schiavizzati da altri uomini che hanno scelto volontariamente di farsi contagiare per ottenere la vita eterna e la salute. Il sistema messo in piedi è bieco e si basa sullo sfruttamento estremo dei sopravvissuti, spesso rapiti dai loro insediamenti grazie all’aiuto di una donna misteriosa, LilaMa Lila, anch’essa un’umana contagiata con il sangue di uno dei Dodici, è una donna disturbata e nello stesso tempo, ha un legame con Amy e con il “tempo di prima”. È l’ex moglie di Wolfgast, l’uomo che aveva salvato Amy e che rappresenta per la bambina una sorta di padre putativo nel primo volume. Su di lei e su Sara si incentra anche l’attenzione dell’Autore sulla maternità: mentre Lila ne è ossessionata a causa della morte della piccola figlia avuta da Wolfgast, in Sara, la maternità diventa un segreto doloroso da custodire con amore, simbolo di un’occasione perduta insieme all’amore di Hollis.

È difficile raccontare la trama di questi romanzi in maniera lineare. Come nel precedente, Cronin interseca diverse storie, presentandoci personaggi che sembrano scollegate tra loro ma che alla fine trovano un loro equilibrio nella seconda parte del romanzo. Nel caso di specie, la narrazione delle vicenda di Lila e di Grey che inizia nel periodo dell’apocalisse, si affianca e si sovrappone a quelle di Guilder, lo scienziato governativo senza scrupoli che non esitava a farli prigionieri per ottenere ricchezza e immortalità. Contro di lui si coalizza il vecchio gruppo proveniente dalla Colonia: Peter, solo e amareggiato, Alicia, che sempre più forte avverte il richiamo della sua “altra” natura, Michael, che ha una compagna forte e determinata, Lore; Hollis che si è trasformato in un biscazziere, e poi ancora Greer, l’ufficiale degli Esploratori, che diviene il famiglio di Amy.

Come e più del Passaggio, I dodiciè un romanzo corale, che come una sinfonia è costituito da più voci e movimenti. L’unità delle vicende è sintetizzata nelle ultime vibranti pagine del romanzo, in cui tutto sembra andare al suo posto, sia pure con un grande carico di dolore e rimpianto. Il finale è decisamente forte e inaspettato, e lascia in bocca al lettore un sapore dolceamaro. Anche se i personaggi principali sopravvivono, viene da chiedersi se davvero il prezzo pagato per la loro salvezza non sia troppo alto. Sebbene la lettura sia stata piacevole, tuttavia sono da segnalare alcuni difetti, o per lo meno, alcuni aspetti che gettano delle ombre su un testo piacevole.

In un certo senso, sembra che Cronin abbia deciso di riproporre il medesimo schema narrativo collaudato nel romanzo precedente: più filoni che si riuniscono in un un’unica data e in un unico luogo. Ciò che colpisce è la somiglianza con le vicende del romanzo precedente: nel Passaggio avevamo un‘enclave umana a Los Angeles che era paralizzata dalla paura, trasformata in un terreno di pascolo per uno dei capostipiti. Ora sono gli esseri umani a gestire il campo di lavoro, ma si tratta comunque di esseri umani contagiati dal virus, gli Occhirossi, che schiavizzano altri per i propri scopi.

Altro motivo di perplessità è la virata “metafisica/paranormale” assunta dalla vicenda, almeno per quanto riguarda uno dei personaggi. Dal piano onirico di Amy si passa alla realtà con uno scarto che lascia perplessi, chiedendosi perché l’Autore abbia scelto di risolvere questo conflitto emotivo in un modo che appare forzato.

La scrittura è sempre molto piacevole, e Cronin, ben più di altri, riesce a tenere alta la tensione nel romanzo. L’angoscia che dalle pagine arriva al libro è forte e si mescola a una malinconia crescente, a una sensazione fatta di rimpianto e di incertezza che restano dentro il lettore anche dopo che la lettura è terminata. L’ansia di vita dei personaggi diventa lo specchio delle paure di un’intera società, che cerca faticosamente di ritrovare una dimensione più giusta, non dettata dalla paura e del dolore per le continue perdite che si è costretti a subire. Si avvertono con forza gli echi Kinghiani, Orwell e di Matheson; L’Autore è loro debitore e in più di un’occasione gli rende omaggio in maniera esplicita. Rispetto al primo volume, però, sembra aver preso maggior consapevolezza delle potenzialità della storia, che ha acquistato un ritmo proprio e vive di suggestioni legate fortemente all’immaginario cinematografico.

Infine, una domanda.
C’è una storia, o meglio, un filo rosso che corre lungo tutto il libro e che all’improvviso si spezza. Perché non ci sono solo i Dodici capostipiti. Ci sono anche dodici fuggiaschi su un pullman giallo di una scuola, sopravvissuti agli assalti dei contagiati e alle bombe dell’esercito che cerca di arrestare il contagio sterminando interi stati senza curarsi dei sopravvissuti. Uno di loro, Kittridge, muore per aiutarli a mettersi in salvo e quella che per pochi giorni è stata la sua compagna, April, porta via con lei il figlio concepito dalla loro relazione. Di colpo, poi, questi personaggi scompaiono, inghiottiti dalle pagine del libro. Cosa è accaduto? Di certo, Cronin tirerà le fila di questa storia nell’ultimo volume, The city of Mirror, atteso per il 2014, e le riannoderà a quelle di Peter, Alicia, Amy e tutti gli altri.

Perché il paziente Zero di quell’esperimento è sopravvissuto alla ribellione degli umani e adesso medita la propria riscossa…


Justin cronin 2012.jpgL'AUTORE
Justin Cronin, nato nel New England, è professore di letteratura inglese alla Rice University e vive con la famiglia tra Houston, in Texas, e Cape Cod, in Massachusetts. Il suo primo libro, Mary and O'Neil, ha vinto il prestigioso premio Pen/Hemingway. Il passaggio, pubblicato da Mondadori nel 2011, è stato l'evento editoriale americano del 2010 e i diritti dell'intera trilogia sono stati acquistati dal regista Ridley Scott.


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